Tra pochi minuti sarò al concerto romano di Roger Nelson in arte Prince, ho già indosso un cappotto grigio che ricorda quello di Under the Cherry Moon (1986), e ciò che segue è scritto a memoria e sebbene qualcuno possa obiettare che questo non è “rigoroso” sappia che è frutto di anni di ricerca, osservazione e soprattutto amore, Love, con il segno della pace in luogo della “o” e il “4” per dire “for” e l'occhio (eye) al posto dell'io inglese, icone ben prima della rete, non semplici fanatismi, ma immedesimazione, nelle gesta, nelle parole e nei fallimenti di Prince da Minneapolis, 52 anni, mille strumenti tra le dita [...]
martedì 2 novembre 2010
venerdì 29 ottobre 2010
Linciando Melissa
Comunica l’intenzione di scrivere un nuovo libro – operazione tra le più consuete, oggigiorno – e al cielo s’alza un coro di latrati. Esce l’agenzia di lancio, e scocca l’ora delle préfiche, cupe e lagnanti. Rilascia interviste, e tutti in fila a divorare e sputare le sue risposte. Una volta pubblicata, l’opera viene sezionata come un rospo putrido, da esporre tra gli schifi della natura. Questo è il trattamento riservato da buona parte del circolopìquic a Melissa P(anarello), autrice di Tre (Einaudi, pp. 172, 16 euro), già best seller con i Cento colpi di spazzola (tradotto in 42 lingue, tre milioni di copie vendute – «merito del marketing», dice qualche genio con un manoscritto in tasca), e appestata numero uno dei cataloghi letterari italiani. Il termine più appropriato per definire tale operazione è: linciaggio. Che nulla ha a che fare con lo stile, la fantasia, la prosa, la poetica, l’immaginazione che nel libro si possono eventualmente scorgere. L’indignazione che muove tanta parte dei lettori professionisti è pre-letteraria. Non si curano del peccato. Ciò che interessa è la peccatrice. La donna col volto da ragazzina che viene dall’Etna, che scrive (anche) di sesso, che fa sesso, che lo racconta in tivvù, lassù, quaggiù e vende di più. Tiè.
Il "destino" di Paul: salvare John
Paul racconta: «Decidemmo praticamente da subito che le canzoni dovevano essere di Lennon e McCartney perché ci ispiravamo a Rodgers e Hammerstein, gli unici due autori che conoscevamo insieme a Lerner e Loewe. Per noi questi nomi erano diventati sinonimi di composizione, perciò volevamo che i nomi fossero due. Io avrei preferito “McCartney/Lennon” ma John aveva una personalità più forte e credo che si fosse già messo d’accordo con Brian (Epstein) prima che io arrivassi. John era fatto così. Non che sia sbagliato ma io ero decisamente meno astuto. Aveva un anno e mezzo più di me ed evidentemente sapeva come girava il mondo. Ricordo che durante una riunione mi dissero: “Pensiamo che le canzoni debbano essere attribuite a Lennon/McCartney”. Io risposi: “Scusate, perché prima Lennon? Non è meglio McCartney/Lennon?”. Ma erano tutti d’accordo: “Lennon/ McCartney suona meglio”. “Anche McCartney/Lennon suona bene”, replicai. Ma alla fine dovetti cedere: “Oh, basta, andate a fanculo!”. Però poi ci mettemmo d’accordo, e tutti i pezzi dell’album Please please me vennero siglati McCartney/Lennon». Durò poco.
giovedì 7 ottobre 2010
Diritto, rovescio, sotto rete. Ecco Anna Paola Concia
L’appuntamento è alle 19 in piazza Montecitorio. Meno cinque, quattro, tre, due, uno. La deputata che vien da Avezzano conquista la linea del traguardo spaccando il secondo. Una veloce ricognizione dello spazio circostante per individuare il cronista, e salutarlo con una tenuta fisica che consenta di compiere il gesto senza: 1. interrompere la telefonata, 2. far cadere la risma di documenti, 3. perdere il borsone sulla spalla. Comincia a piovere. Con due salti dorsali e un rapido allungo guadagna l’entrata del palazzo. Piroetta tra i tornelli e con movimento ciclico raggiunge il bancomat degli onorevoli. Ruotando di 180 gradi l’asse coxo-femorale digita il pin senza dare le spalle a chi le parla. Quattro falcate verso l’uscita. Con un’escursione articolare oltre il possibile, verifica l’atmosfera. Non piove più. Potenzia la rullata plantare fino ad avviare uno stacco che la condurrà dopo meno di 11 secondi al tavolo in fòrmica di un happy hour. Qui plana e ordina: «Per me uno spritz, grazie».
domenica 19 settembre 2010
Irene Pivetti: Il mio motto? Servire il popolo
Non è mai andata bene, Irene Pivetti. Da quando ha esordito, ogni sua scelta è stata accompagnata dalle voci bianche dell’indignazione, sempre pronte – lì – a stigmatizzare abito e monaco. Quando nel 1994 fu eletta a soli 31 anni presidente della Camera (e diamine, cosa volete di più? giovane e donna), editorialisti di rango come Michele Serra scrissero: «La devota Irene Pivetti è la prova vivente dell’esistenza dei miracoli: nessuno può spiegare razionalmente come poté diventare la terza carica dello Stato». Identico tenore quando, alcuni mesi dopo, si trovò suo malgrado nella tormenta post ribaltone. Gianfranco Fini (come cambiano i tempi) la incalzò a più riprese, «dimettiti, non puoi criticare Forza Italia», con allusioni poco velate su una presunta ignoranza istituzionale (data la giovane età della donna, anche qui). E ancora: all’inizio – se vestiva orribili completi a quadri e teneva le mani giunte – era la “pia Irene”. Poi, vestiti più moderni e acconciatura vaporizzata, «ha finalmente conquistato una mascolinità femminea» (Ida Magli. Magari non è un insulto ma suona tanto male). Si sposa con Alberto Brambilla, 10 anni più giovane, e il Transatlantico si trasforma nella bocciofila della morale. «Non è bene, non è bene». E ora che Alberto l’ha lasciata gli stessi giornali di allora titolano: «La fine di una favola». Cacciata dalla Lega («Ha tradito», pronunciato in padano stretto), presiede l’Udeur di Mastella («È l’amante di Clemente») e infine abbandona la politica («Sì, però continua ad avere ufficio e servizi pagati con i soldi pubblici»). Entra in tivvù, si taglia i capelli cortissimi, indossa vestiti sempre più sexy fino a trasformarsi in catwoman e il commento è unanime: «questa è impazzita». Poi però lei appare serena e divertita dalle sue continue avventure e allora – finalmente – la giuria popolare tace. Commette un solo vistoso errore: la partecipazione a Ballando sotto le stelle. Danzare male sta agli occhi come il violino di un principiante agli orecchi.
Poi c’è l’ultimissima notizia. La mancata nomina ad assessore a Reggio Calabria. Avrebbe dovuto promuovere l’immagine della città. Questa volta cos’è che non andava?C’è stata una forte levata di scudi contro il sindaco Giuseppe Raffa da parte del Pdl. Non vogliono assessori non nati a Reggio. Solo politici autoctoni.
Poi c’è l’ultimissima notizia. La mancata nomina ad assessore a Reggio Calabria. Avrebbe dovuto promuovere l’immagine della città. Questa volta cos’è che non andava?C’è stata una forte levata di scudi contro il sindaco Giuseppe Raffa da parte del Pdl. Non vogliono assessori non nati a Reggio. Solo politici autoctoni.
giovedì 9 settembre 2010
Sei il nostro Joe Strummer e in tuo nome spakkeremo tutto
Lanciando l’ultimo album di Fabri Fibra, Controcultura, l'editrice Universal ha impugnato la penna e dichiarato: noi prendiamo le distanze da quanto contenuto in questo disco. Tanta premura per qualche battuta da gossip e un passaggio, censurato, sulla «paura di prendersi l’Aids». Avete presente i Truceklan da Centocelle. Cercateli su youtube, ascoltate “Roma violenta”. Attaccano il brano rammaricandosi di non vivere più nella Magliana della banda, quando ci si «ispirava ai gangster degli anni ‘30». Truci seri, i Truceklan.
venerdì 13 agosto 2010
2020, lo strano silenzio di Berlusconi
Roma, 15 agosto 2020
Caro amico,
accade proprio nelle giornate come questa, storditi dall’afa e dall’amaca, di incartare la mente con la regina delle domande: cosa è successo quella notte di dieci anni fa? Nessuno può esonerarsi dal rispondere. C’eravamo tutti. E tutti desideravamo qualcosa. Chi la sua morte, chi la sua rinascita. Qualcuno pregava, altri cantavano. Altri ancora, come noi, immaginavano il dopo (più per esorcizzare il dramma che perché ne fossimo capaci). Dentro le case, nelle parrocchie, in piazza, nei centri commerciali, l’intero paese fingeva di lavorare, divertirsi e consumare al basso continuo dell’angoscia. Qualcuno paragonò l’atmosfera di quegli anni al clima che emanò dal rapimento Moro. Ma stavolta non c’era fermezza, non c’era tattica di sorta, non c’era neanche lo Stato. Unica cosa in comune con quell’evento – lo scriverà Galli della Loggia due anni dopo – «è il salto di qualità, la potenza del gesto. Sebbene non siano le Br a lanciare l’offensiva, ma Dio in persona».
Se solo si potesse trattare con qualcuno!, ci rammaricavamo. E scambiare al mercato nero del fato la felice soluzione con, che so, un fiume. O un intero consiglio d’amministrazione. O una squadra di calcio di serie A. Interrompete questo strazio e noi vi regaliamo la Lazio. Ridevamo di noi stessi. Della nostra maniera tutta infantile di relazionarci all’avvenimento che avrebbe cambiato le nostre vite.
Caro amico,
accade proprio nelle giornate come questa, storditi dall’afa e dall’amaca, di incartare la mente con la regina delle domande: cosa è successo quella notte di dieci anni fa? Nessuno può esonerarsi dal rispondere. C’eravamo tutti. E tutti desideravamo qualcosa. Chi la sua morte, chi la sua rinascita. Qualcuno pregava, altri cantavano. Altri ancora, come noi, immaginavano il dopo (più per esorcizzare il dramma che perché ne fossimo capaci). Dentro le case, nelle parrocchie, in piazza, nei centri commerciali, l’intero paese fingeva di lavorare, divertirsi e consumare al basso continuo dell’angoscia. Qualcuno paragonò l’atmosfera di quegli anni al clima che emanò dal rapimento Moro. Ma stavolta non c’era fermezza, non c’era tattica di sorta, non c’era neanche lo Stato. Unica cosa in comune con quell’evento – lo scriverà Galli della Loggia due anni dopo – «è il salto di qualità, la potenza del gesto. Sebbene non siano le Br a lanciare l’offensiva, ma Dio in persona».
Se solo si potesse trattare con qualcuno!, ci rammaricavamo. E scambiare al mercato nero del fato la felice soluzione con, che so, un fiume. O un intero consiglio d’amministrazione. O una squadra di calcio di serie A. Interrompete questo strazio e noi vi regaliamo la Lazio. Ridevamo di noi stessi. Della nostra maniera tutta infantile di relazionarci all’avvenimento che avrebbe cambiato le nostre vite.
martedì 6 luglio 2010
La criptonite di Taricone
venerdì 18 giugno 2010
Nicola Lagioia: Noi degli anni ’80, sfruttati ma sfruttatori in erba
Il nostro amico Arnold, per disfunzioni renali, non ha mai superato i 130 centimetri di altezza. E ne ha vissute parecchie altre, di sfortune. È stato in causa con i genitori, che si erano impossessati dei suoi guadagni da attore. Ha provato a lanciarsi in politica candidandosi alle primarie di governatore della California nel Partito Repubblicano, arrivando ottavo, trombato da un altro Arnold (Schwarzenegger), bianco, austriaco e (già) muscoloso. È stato arrestato, rilasciato e ancora arrestato. Una vita così, fino allo scorso 28 maggio, quando è caduto da una scala nella sua casa di Salt Lake City, battendo la testa. E morendo a soli 42 anni. Qualche settimana prima, con un colpo di fucile si era tolto la vita Tyler Lambert, il figlio venticinquenne di Dana Plato, l’interprete di Kimberly Drummond, la sorellastra di Arnold. Dana Plato era già morta, nel 1999, per un abuso di farmaci, dopo aver partecipato a una trasmissione e aver comunicato a mezza America il suo gran ritorno. Detto questo mi attenderei dallo scrittore barese Nicola Lagioia, responsabile della collana Nichel alla minimum fax, conduttore su RadioTre e penna critica della generazione nata nei Settanta e cresciuta nei palinsesti degli Ottanta, una lettura non convenzionale della catena di sfiga che ha colpito le nostre amate star. Mi spiazza: non ci vede nulla di particolare. Per lui quei finali di partita non hanno niente di emblematico, e altro non aggiungono se non misere parabole (e marginali) alla Hollywood Babilonia. Anche se poi, chi dice qual è il modo migliore per uscire di scena? «Non dimentichiamoci – ricorda Lagioia – che Elvis Presley è morto sul cesso, per un attacco cardiaco. È più triste, non credi?».
martedì 27 aprile 2010
Finché noia non ci separi
Può accadere di gradire un misto di formaggi a casa di amici. Chiacchierare in allegria, evitando di urlare perché i bimbi dormono. Può accadere di notare, tra lazzi e caciotte, che sono 45 minuti che la conversazione è accompagnata da un bizzarro loop sonoro. Può accadere che qualcuno, stranito da quelle note sintetiche, ricerchi la sorgente nello stereo o in un cellulare sul comò. Scoprendo infine che la fonte di quel profluvio sia nientepopodimenoche il jingle del menù della Nintendo Wii, il videogioco che si pratica correndo e saltando, e che i padroni di casa hanno tenuto acceso con naturale ostentazione (e come memento mori). Può accadere dunque che un gruppo di quasi quarantenni ceni e conversi di amabili resti sulle note di Wii Sports Resort per oltre tre quarti d'ora, senza poter contare su un residuo di anticorpi che avverta: «dementi, perché non mettete su un disco, foss'anche di Drupi?».
martedì 20 aprile 2010
Nati per servire
lunedì 15 marzo 2010
Aldo Busi, l’amico del diavolo nel palinsesto di Dio
Poi finirà che la Rai, la tivvù di dio, lo riaccoglierà tra le sue ampie braccia. Così è accaduto per Leopoldo Mastelloni, che durante una puntata di Blitz (1984) spedì nell’etere una sonora bestemmia. Così è successo in tempi più recenti al toscano Ceccherini, naufrago imprecatore. Così capiterà, dunque, ad Aldo Busi, strepitoso nel sabotare la diretta con 15 minuti alla “pasquino”. Lo ricorteggeranno per coerenza alla parabola del figliol prodigo. Anteprima ne sia la confessione-assoluzione di badessa Ventura sulla sua web-tv (così come fu per Morgan con don Vespa e con sora Clerici a Sanremo). Ma lui, al lungo codazzo di pallidi scherani col ditino ancora umido di morale, – ne siamo sicuri – farà trombetta.
domenica 14 marzo 2010
Il favoloso mondo di Oreste
Ci vuole pazienza, ma per conoscere bene il personaggio è utile passare per questa dotta citazione: «Proponendo un’antropologia sociale alternativa, Henri Lefebvre ha sostenuto la necessità di affrancare la quotidianità dal ruolo che essa svolge nel capitalismo, dove serve soltanto a riprodurre le caratteristiche imposte alla vita collettiva da parte della classe dominante. L’abitudine è una sorta di deposito sotterraneo all’interno del quale si sedimentano le convenzioni e le menzogne del potere, è qui che si trova la barriera che impedisce alla fantasia e all’inventiva individuali di trovare le vie per una propria espressione autonoma». Terni non è una bella città. E se ci nasci, e Oreste Scalzone lo nacque 63 anni fa, misuri più di altri il “deposito” abbrutente delle menzogne. Per questo, quando il cugino Claudio Petruccioli, ex presidente Rai, gli mostrò per la prima volta (anno 1959) i testi del filosofo francese, gli occhi di Oreste dodicenne si illuminarono d’immenso: una vita oltre Terni era possibile. Quel corpo così delicato si raddrizzò nell’orgoglio, i polmoni affaticati dalla nascita si riempirono di parole cantate, i pugni tante ossa e poca carne iniziarono a serrarsi. La metamorfosi si compì: Oreste, figlio di Giuseppe ed Eugenia Scalzone, era pronto alla guerra, e a divenire uno degli “imprescindibili” della contestazione italiana. (Per i critici, appare ora chiaro che buona parte della responsabilità di ciò che è accaduto nel paese dal ‘68 in poi è da addebitare a Claudio Petruccioli, ex presidente Rai).
Ma il favoloso mondo di Oreste Scalzone, se lo si volesse rappresentare, non avrebbe le scenografie delle insorgenze popolari, né le coreografie dei moti urbani. Avrebbe il profilo di una fisarmonica modello rosso rubino a 120 bassi e tasti ridotti. Un coro di ance raccolte in un solo aggeggio. Una piccola orchestra a tracolla, perfetta per i condannati al viaggio. Come lo slittino Rosebud, la cui perdita spinse citizen Kane a divorare il mondo, anche l’organetto di Oreste fu un regalo d’infanzia. Tradito dalla politica, ha passato 30 anni chiuso in un baule, per poi ricicciare a Parigi, e lì riabbracciare il corpo segaligno del suo primo padrone. «Me la regalò mio padre Giuseppe».
sabato 20 febbraio 2010
Il fasciocomunista è tornato
Il “fasciocomunista“ è tornato, e dà appuntamento per l’intervista a mezzanotte in punto. «So’ nottambulo, è ‘na cosa che m’è rimasta addosso dai turni in fabbrica». È tornato, Antonio Pennacchi l’ex missino, servitore del popolo, sessantottino, socialista, comunista, Cgillino, Uillino, operaio all’Alcatel Cavi, dottore in lettere, autore di 9 libri ed eroe cinematografico nell’interpretazione di Elio Germano. È di nuovo qui, il fratello del re dei notisti politici Gianni (da poco scomparso) e della deputata Pd Laura, ed è ancora incazzatissimo. «In questo paese di merda nessun giornale mi fa scrivere. Sono tutti conformisti». Ma intanto, il nuovo libro è in odor di premio Strega e i critici di prestigio lo hanno salutato come «un capolavoro, all’altezza di Manzoni. E grazie al quale capiremo l’Italia del futuro». Canale Mussolini (Mondadori, 20 euro, pp. 464), dal nome del canale “Acque Alte“ che ancora oggi attraversa il territorio di Latina, narra la storia di una famiglia veneta (i Peruzzi di Codigoro) migrati nel Lazio a prender parte all’immane impresa di bonifica. Lo spunto è autobiografico, e le ragioni dell’opera assai chiare: «Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo». L’epopea di un territorio e di un popolo, quello veneto pontino, raccontato con tono epico, con citazioni bibliche e con accenni ai giorni nostri. Un lavorone, di ricerca e d’affetti. Per queste e altre cento ragioni converrebbe leggere il romanzo prima di entrare in contatto con Pennacchi il combattente. Per evitare siparietti come questo: «Tu il libro l’hai letto?». No. «E allora de che parlamo?».
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