domenica 14 marzo 2010

Il favoloso mondo di Oreste

Ci vuole pazienza, ma per conoscere bene il personaggio è utile passare per questa dotta citazione: «Proponendo un’antropologia sociale alternativa, Henri Lefebvre ha sostenuto la necessità di affrancare la quotidianità dal ruolo che essa svolge nel capitalismo, dove serve soltanto a riprodurre le caratteristiche imposte alla vita collettiva da parte della classe dominante. L’abitudine è una sorta di deposito sotterraneo all’interno del quale si sedimentano le convenzioni e le menzogne del potere, è qui che si trova la barriera che impedisce alla fantasia e all’inventiva individuali di trovare le vie per una propria espressione autonoma». Terni non è una bella città. E se ci nasci, e Oreste Scalzone lo nacque 63 anni fa, misuri più di altri il “deposito” abbrutente delle menzogne. Per questo, quando il cugino Claudio Petruccioli, ex presidente Rai, gli mostrò per la prima volta (anno 1959) i testi del filosofo francese, gli occhi di Oreste dodicenne si illuminarono d’immenso: una vita oltre Terni era possibile. Quel corpo così delicato si raddrizzò nell’orgoglio, i polmoni affaticati dalla nascita si riempirono di parole cantate, i pugni tante ossa e poca carne iniziarono a serrarsi. La metamorfosi si compì: Oreste, figlio di Giuseppe ed Eugenia Scalzone, era pronto alla guerra, e a divenire uno degli “imprescindibili” della contestazione italiana. (Per i critici, appare ora chiaro che buona parte della responsabilità di ciò che è accaduto nel paese dal ‘68 in poi è da addebitare a Claudio Petruccioli, ex presidente Rai).

Ma il favoloso mondo di Oreste Scalzone, se lo si volesse rappresentare, non avrebbe le scenografie delle insorgenze popolari, né le coreografie dei moti urbani. Avrebbe il profilo di una fisarmonica modello rosso rubino a 120 bassi e tasti ridotti. Un coro di ance raccolte in un solo aggeggio. Una piccola orchestra a tracolla, perfetta per i condannati al viaggio. Come lo slittino Rosebud, la cui perdita spinse citizen Kane a divorare il mondo, anche l’organetto di Oreste fu un regalo d’infanzia. Tradito dalla politica, ha passato 30 anni chiuso in un baule, per poi ricicciare a Parigi, e lì riabbracciare il corpo segaligno del suo primo padrone. «Me la regalò mio padre Giuseppe».








Racconti bene.
Avevo 9 anni. E mio padre, origini napoletane e mandolinista per passione, voleva che io imparassi a suonare. Mi comprò la fisarmonica in un mercatino d’occasione e mi mandò a lezione dal Maestro Rocco Cristiano, il direttore della banda comunale. Ma cominciai presto a barare. Siccome avevo talento, suonavo a orecchio. Senza approfondire la tecnica.


Per quanto tempo ha retto il gioco?
Per tre, quattro anni. Fino a quando non ho incontrato la politica, che poi per me era la piaza, la gente, l’azione…

Ovvero?

Nel ‘60, dopo i fatti di Genova. Io avevo 12 anni, e quelle insurrezioni mi galvanizzarono. Decisi così di entrare nella Fgci, nella gioventù comunista, lasciando perdere tutto il resto, a cominciare dalla fisarmonica che fu messa in un baule.

Per poi ricomparire 32 anni dopo.

Da qualche mese facevamo a Parigi il Giornale immaginario. Come negli anni Sessanta a Terni avevamo fatto un giornale parlato, che si svolgeva in una sala comunale, così a Parigi ci riunivamo in un vecchio bistrot dismesso.

Come si fa un giornale parlato?

Era un insieme di soliloqui di riflessione critica e di agitazione pura. C’era anche chi cantava. Ricordo un senegalese, che poi sarebbe diventato famoso. Non ricordo il nome. Qualcuno proiettava dei video. C’erano momenti di magia pura, come se dietro ci fosse una regia.

Invece era tutto improvvisato.

Certo, Chi voleva interveniva. Anche dall’Italia.

Come?

Via fax. Una volta ci riunimmo per festeggiare il 18 marzo (giorno dell’insurrezione della Comune di Parigi del 1871). Il mio amico Mario Schifano realizzò un disegno con scene tra l’astratto e il figurativo ispirate alla Comune. Noi spegnemmo le luci e osservammo questo fax (erano quelli a rullo) uscire pian piano. Quindici metri di straordinaria narrazione. Eravamo abbacinati. Seguimmo in silenzio tutta la storia, fino alla fine, quando comparve la firma: Carlo Fax!

Non male.

Era grande, Mario. Con lui facemmo anche un manifesto per la caduta del muro. Io scrissi lo slogan: «1989, Marx finalmente libero». Libero dai marxisti di Stato. E Schifano disegnò il faccione di Marx con intorno mari e monti.

Un elemento del paesaggio naturale.

Esatto. Il comunismo si è fatto mondo.

Cos’è e cosa è stato per lei il comunismo?

A Parigi una volta con altri latitanti abbiamo fatto un gioco da tavolo: perché sei diventato comunista?

Parentesi: dunque si definiva latitante?

Questo sono stato per la legge italiana. Esule è un eufemismo nobilitante che non mi piace. Le parole hanno un peso materiale. È giusto usarle correttamente. Senza retorica.

Chiusa parente. Il gioco da tavolo.

Insomma, alcuni di noi dicevano: io sono diventato comunista per combattere la povertà, io per i mali del terzo mondo, io per l’avanzata del proletariato. Cose così.

Lei, invece?

Sai, Terni negli anni ‘50 non non offriva lo spettacolo di tanta miseria. O almeno non c’è paragone tra la povertà di allora e quella che puoi vedere nelle metropoli d’oggi. Io diventai comunista a causa di Caryl Chessman.

Ucciso dal boia in California nel 1960. Il condannato a morte più celebre.

Quei tredici anni di agonia, ricorso dietro ricorso, nel braccio della morte… Trovavo il braccio assai peggiore della morte.

Lei ha rischiato di morire diverse volte. La salute non è il suo punto forte. Il 16 marzo del ‘68 i neofascisti di Caradonna omaggiarono la sua spina dorsale con un banco in pura fòrmica. Sua madre come la prese?

Devo premettere che mia madre è sempre stata un’ipocondriaca colossale e proiettiva. Mi fece battezzare “cuius regio” perché ero nato settimino. Ripeteva in continuazione che il suo sogno sarebbe stato vedere suo figlio a 15 anni. È morta nel 2006 a 102 anni. Trasformò la sua ipocondria e ossessione della morte in una lieve e costante depressione.

Il banco a giurisprudenza.

Sì. Fui ricoverato alla clinica Città di Roma, una struttura vicina al Pci. Ci passai più di un mese. Mia madre si precipitò e restò accanto a me tutto il tempo. Io la osservavo. Questa donna minuta, un po’ all’antica, con le sue pruderie. Seduta lì, circondata dalla compagneria più varia. Un flusso continuo di amici che usavano la parola “cazzo” come intercalare. Dal punto di vista del linguaggio, quell’esperienza fu per mia madre occasione di svezzamento.

Non era preoccupata dalle sue frequentazioni? Non le diceva: Oreste, cambia giro, evita questi scalmanati?

No, assolutamente. Mia madre era una vecchia comunista… come dire, giansenista. Agli antipodi dal nostro anti lavorismo, ma con una sua precisa etica rivoluzionaria. Lei sapeva che ero amico di Renato Curcio, e quando lo arrestarono non fece alcun tifo. Si limitò a dire: hai visto quel povero ragazzo? Era una così. Quando le chiedevano di me, lei rispondeva con un certo orgoglio: è accusato di insurrezione contro lo Stato. Se mi avessero condannato per due grammi di hashish si sarebbe vergognata da matti. La mia attività non l’allarmò mai. Lei era in trepidazione solo per la mia salute. Non voleva che frequentassi la Fgci, non perché erano le sezioni del partito comunista, ma perché erano piene di fumo di sigaretta.

Una (auto) biografia sulla sua odissea? La malattia da giovane, il carcere, la fuga in Corsica con Gian Maria Volontè, Copenaghen, Parigi, Roma… Malgrado tutto, è una bella storia, non crede?

Con Nanni Balestrini la stavamo per scrivere negli anni della latitanza parigina, prima che lui componesse Gli invisibili su Sergio Bianchi. Nanni, anche lui vittima del processo “7 aprile”, si rifugiò saggiamente a Aix-en-Provence. Veniva a Parigi ogni tanto. E cominciammo a ragionare sul libro. Lui era uno ordinato. Io più aleatorio. Ogni giorno, arrivavano nel nostro piccolo “porto“ zattere di fuggiaschi. Gli appuntamenti saltavano…finimmo per abbandonare.

Parliamo ancora di fisarmonica. Ha mai composto musiche originali?

Ci provai da giovane. Negli anni Sessanta. Ma mai seriamente. Abbozzai alcuni testi. Ma ho troppo rispetto per le composizioni altrui. Le canzoni della Comune, e il mio pezzo forte: Addio Lugano bella. I francesi credevano che fosse una mia composizione. Ci tengo io, alla mia fisarmonica. Lo si può vedere nela foto che abbiamo ritrovato, da come ringhio ad un celerino di non azzardarsi a rompermela. È un “accordéon de combat” Anche se, musicalmente parlando, io sono imbattibile su altro.

Cioè?

Il fischio. Lì non temo nessuno.

Io non so neanche immaginare come possa essere la vita di un latitante. Quando ci penso però la prima parola che mi viene in mente è solitudine.

Sarò retorico, ma io ho vissuto un’atroce solitudine nel chiasso. Ho frequentato tantissima gente. A Parigi per lunghi anni è stato un via vai di rifugiati politici. Incontri, conoscenze, scoperte. E io, come mi dicevano gli amici, ero un po’ il “primo soccorso” di tutti. Dunque non sono mai stato solo. Eppure, come dicevo, ho vissuto momenti in cui, per citare il poeta della Guadalupa Edouard Glissant quando scriveva della sua negritudine, dieci volte al giorno strozzerei i miei compagni, ma alla fine resto uno di loro. Il primo film di Nanni Moretti…

Io sono un autarchico…

Ecco, io sono un empatico. Ma l’esposizione all’altro crea anche tanta infelicità.

Diceva dell’ossessione di sua madre per la morte. Lei che rapporto ha con la fine delle cose?

Questa ansia materna, credo, mi ha reso chiaro il concetto marxiano di plusvalore. Scriveva Marx stesso a Engels: la lotta di classe mica l’abbiamo inventata noi, e neanche la legge del valore. Noi abbiamo inventato il plusvalore, il tempo della vita. Ecco, il tempo della vita mi sta a cuore più di ogni altra cosa. Anche se l’immortalità sarebbe quantomeno una condanna alla claustrofobia.

Di chi canterebbe oggi con la sua fisarmonica?

Dei rivoltosi nei Cie. Dei ribelli di Rosarno. Perché la fine della sinistra coinciderà con la fine delle insorgenze. Lo sfruttamento attuale a danno dei migranti mi ricorda i fenomeni di inizio secolo, la messa a lavoro dei vagabondi, i luddisti, il proletariato che avanza. Il nostro compito, come sempre, è trovare le parole. Parole che non sovrastino ma che accompagnino il loro nome.

Dall’altra, invece, ci sono episodi solitari, rabbiosi, come il lancio della statuina contro Berlusconi.

Di quel fatto mi è rimasto impressa una cosa. Su alcuni siti antagonisti qualche giovane ha scritto: 10 100 1000 Tartaglia. Ora, voglio dire, uno invoca 1000 volte un’offensiva se quell’offensiva richiede grandi manovre. Ma per lanciare una statuina, dico io, lo puoi fare anche tu, no? Poi, dopo esserti limitato allo slogan, finisci a farneticare su complotti e messe in scena. Ma almeno riconosci che quel gesto ha dato un po’ di gioia a Tartaglia. Accontentati.

Per certi versi il suo ragionamento lo definirei saggio.

Ti racconto una cosa. A Parigi c’erano, lo dico sommariamente, due tipi di rifugiati. Quelli che non accettavano la sconfitta e gli apocalittici e integrati. I più integrazionisti si sono inseriti nel mondo del lavoro, nel reddito e in una lingua parlata perfettamente. Io e altri compagni rompemmo questa coppia oppositiva e imboccammo una linea di fuga: questa è la realtà, l’importante è non scendere al di sotto. E trovai conforto in uno scritto di Deleuze: Appunti per una morale provvisoria, ovvero cercare di essere all’altezza di ciò che ci capita. Quello che tu definisci “saggezza” è questa roba qua.

Un termine per definire il suo mondo, il mondo che vorrebbe.

Dopo secoli in cui l’umanità ha avuto bisogno di gerarchie, di pastori, principi e papi, vorrei una vicenda umana segnata dall’autogoverno. L’autonomia, in comune.



pubblicato su Gli Altri

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