La tensione intellettuale con cui Nostra signora del teatro teneva agganciati noi, popolo televisivo, ai suoi Uno contro tutti, felice invenzione di Maurizio Costanzo in Parioli, fu ribaltata una sola volta. Da Roberto D'Agostino. Dacché Carmelo Bene aveva ripetuto a più riprese: «Io non esisto», Dagospia, uno dei tutti, azzardò: «Ma se lei non esiste, perché si tinge i capelli?». Ridemmo in tanti, e non solo per aver beccato il potente (di verbo e intelletto) in fallo. Cedendo alla provocazione inattesa, l'artista salentino smise per un istante di considerare se stesso come il solo pubblico accreditato. Con sorriso cortese e pupille tremanti, Bene tradì la consueta distanza con cui firmava le sue rare e popolarissime incursioni televisive, e confermò la regola di non essere «mai in diretta», come scriverà Enrico Ghezzi, «che è il senso più forte di tutto il suo lavoro».
È vero. Grazie al “non stare lì” Bene poteva zittire, senza esporsi allo spernacchio, gli interlocutori di prima fila e di piccionaia, con saporiti lazzi del tipo: «Lei non può parlare di Dio con Dio». O virare lo stupore della platea verso l'altrimenti indicibile «Non voglio essere interrotto da chi mi rompe i coglioni con l'essere e con l'esserci; abbasso l'ontologia, me ne strafotto: parli col Professor Heidegger, non con me!». «Qui c'è troppa puzza di Dio». «Io ignoro. Io sono la mia s'ignora. Sono s'ignorante, sono un Signore». Dalle colline alle periferie, tutti applaudivamo, in un carnevale di concetti che poteva pure fare a meno della comprensione e del titolo di studio. Appunto: c'è qualcosa di più candidamente televisivo se non il godere e basta?
Carmelo Bene amava il piccolo schermo. «Come si può pretendere – disse in un'intervista – che il pubblico conosca gli infiniti vantaggi che il mezzo televisivo offre dal punto di vista tecnico, se nessuno glielo ha mai insegnato? È un errore madornale pensare che gli spettatori non vogliano imparare. Continuano a propinargli gli stessi “scemeggiati”, lavorando troppo sui campi medi. E lavorare su campo medio è lavorare sulla mediocrità».
Aveva cara così tanto la televisione, il congegno popolare, da considerarla, nel suo schifo, la “Casa dell'Essere”, come scrissero Jean Baudrillard e Giorgio Agamben in un saggio corposo, In ascolto dell'inaudito, pubblicato da Luigi Berlusconi editore, e contenuto in una prestigiosa strenna natalizia che Mediaset dedicò alle apparizioni dell'attore sulle reti aziendali.
Bene non amava i critici. «Non sopporto – disse in una delle memorabili partecipazioni a Mixer Cultura (1988), di fronte a un basito Arnaldo Bagnasco – il ruolo dei critici. È un mestiere veramente umiliante. Il critico, diceva Léon Bloy, è “colui che ostinatamente cerca un letto in un domicilio altrui”. Ecco, c'è questo dissesto. Io sento il loro disagio. I critici non devono occuparsi del mio teatro, della situazione di scena, già così difficile, dove da capire non c'è nulla, grazie a Dio. Ecco. Per depensare bisogna aver pensato».
La guerra, che Costanzo seppe capitalizzare al meglio nel suo Show, era proprio nel corpo a corpo tra la destrutturazione continua di Bene e la prosaicità fessa e sorniona dei critici intervenuti. Che ci provavano, certo, a chiudere il pugliese nell’angolo, ma pur sempre si chiedevano chi mai avesse osato prima di Bene, durante una trasmissione commerciale, a comporre discorsi così densi e articolati sulla filosofia, la morale, il gusto, la contemporaneità? Chi mai, in televisione, citerà ancora brani tratti dalle opere di Aristotele, Nietzsche, Deleuze, Derrida, Lacan, Foucault senza scorciatoie e ammiccamenti? C'era in lui un rispetto e un amore tragico per il pubblico, anche per il più distratto e meno predisposto. Ne condannava la mediocrità, ne denunciava il deserto, «voi gentaglia», diceva, ma intanto gli parlava senza sosta, lo incalzava, lo consigliava, senza pose intellettualistiche e senza pretenderne applausi, per tornare poi a biasimarne il vuoto conformismo. Con Carmelo Bene noi spettatori abbiamo sentito la scatola che ci racchiude, e percepito la possibilità di un'intelligenza lontanissima. Non cogliendola meritammo il suo saluto, nel 1994, tra le pareti di Canale 5: «È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti».
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