lunedì 30 luglio 2012

Paolo Bonacelli, l'artista e la merda

«Era della golosissima cioccolata amara con canditi». Perché io me lo sono sempre chiesto: quella che il repubblichino per finzione Paolo Bonacelli, in Salò o le 120 giornate di Sodoma, calandosi le braghe rilasciava sul pavimento, tra le risatine dei gerarchi, la pietanza escrementizia di cui la vittima doveva cibarsi, era vera merda? No, cacao. «Io e gli altri interpreti ci divertivamo come matti. Alla fine della scena ce la mangiavamo con appetito. Per noi era solo ottima e innocua cioccolata». Ma quando lo incontrano e ci parlano, e salta fuori Salò, la domanda è sempre accompagnata dal disgusto. Come se non fosse chiara, dice l'attore, la linea che separa la realtà dalla fantasia. Il patto tra immaginario e modelli sociali. Croce e delizia, merda e cacao, di questo Paese. Ma Bonacelli, che ha il talento di non perdersi in funambolismi mentali, si limita a sostanziosi aneddoti, e aggiunge che «I piselli dei ragazzi sottomessi erano solo protesi di gomma».

Lei è quello di “Salò”.
Ecco, questa è stata la frase che mi ha accompagnato per anni. Lavorare con Pasolini era, ed è tutt’ora, un marchio indelebile, capace di provocare reazioni fortissime. E per chi come me ha recitato in Salò, oggi riconosciuto dalla critica come il vero capolavoro di Pier Paolo, la sentenza fu subito chiara: porcone. Come dicevo, hai voglia a dire che un film è un film. No, per molti io avevo veramente abusato di quei ragazzi...
Rinnega Pasolini?
Scherza? Sia mai. Sono orgogliosissimo di quello che ho fatto. Ma è così, quel nome fa rima con scandalo. Ne parlavo tempo fa con il mio amico Giuseppe Bertolucci (scomparso lo scorso 16 giugno, ndr). Pasolini conosceva così bene il piccolo borghese da sapere dove pizzicarlo. Come prenderlo in castagna. Nessuno come lui ha fatto incazzare l'italiano medio. Noi ne eravamo consapevoli. E il sapore della cioccolata ci guadagnava.
Oggi, a quarant'anni di distanza da quella pellicola, lei omaggia un altro “scandaoloso”, il filosofo Georges Bataille. 
Sì, in Impossibile e tuttavia qui - 50 anni senza Bataille, scritto da Giuliano Compagno e diretto da Marcello Cava.
Dal porcone all'intellettuale...
Macché, è un testo e un pensiero attuale, e comprensibilissimo. All'ultima prova aperta c'era una ragazza di 17 anni che si appuntava le frasi, le citazioni. Le cose belle non faticano a viaggiare. Basta liberarle. 
Come il suo ultimo Molière?
Il malato immaginario ha avuto un successo clamoroso. 
Perché si meraviglia?
Perché nessuno lo conosce. Tantomeno i giovani. Eppure sono loro che hanno fatto numero.
Dunque?
Il fatto è che quello spettacolo fa ridere. Ma non perché noi abbiamo fatto chissà cosa. Fanno ridere le battute di Molière, nel quattrocento anni fa. E reggono – e vincono – il confronto con quelle di Zelig, il programma televisivo. Ma nei confronti del teatro c’è ancora molto pregiudizio.
Mi dice per favore due motivi che, secondo lei, stanno alla base della poca cultura teatrale.
A teatro bisogna andarci. Perché leggerlo è di una noia mortale. Ti perdi tra le battute, non ti ricordi il nome e il profilo dei personaggi... un disastro. Ma una volta che ci vai il rischio non si estingue. Ne subentra uno nuovo: i registi, la loro proliferazione.
Continui, non abbia pietà.
I registi, per sentirsi e considerarsi tali, devono per forza stravolgere il testo. Di solito aggiornandolo , con effetti grotteschi. Per esempio: l'Arlecchino di Goldoni deve vestire abiti moderni e parlare un gergo da “ggiovane”, limitandosi cioè a un esercizio di stile. O addirittura mettere in scena un Arlecchino che non fa ridere.
Complici?
I critici.
Che scrivono?
«Il regista ha destrutturizzato...».
Cosa?
Ecco, appunto. Invece in Inghilterra è un'altra storia.
Raccontiamola.
Lì c'è più coraggio. In teatri come il National Theatre, ogni anno in cartellone vengono inseriti almeno quattro, cinque spettacoli originali. Solo il resto è repertorio. Ma la drammaturgia si misura con l'attualità, i nuovi linguaggi, le sfide. E non perdonano. Se fai fiasco si chiude. In Inghilterra il teatro fa parte della vita sociale. Non è un corpo separato.
Cosa pensa del teatro Valle e dell'occupazione?
Non mi attrae. Capisco le ragioni che hanno portato a quell'iniziativa, ma temo che se le siano presto scordate anche loro.  Fin dall'inizio non mi ha convinto il loro linguaggio, fermo a 30 anni fa. Se parli come parlavo io alla tua età, dove pensi di andare? In tournée con i Negramaro, ecco.
Tornando all'Inghilterra...
Di quel Paese adoro sopra tutte due cose.
La prima.
Le corse dei cavalli.
Le piacciono i cavalli.
No, per niente. Animali stupidissimi.
Come?
Sì, isterici come pochi. Un cavallo sarebbe capace di buttarsi da una finestra per l'isteria. È fatto così. Il cavallo da corsa è frutto di un incrocio tra quello inglese e quello arabo.
Di solito gli incroci sono più svegli dei puri di sangue...
Non vale per il cavallo.
Va bene. Le corse, diceva.
Ecco, in Inghilterra sono come il teatro. Un'occasione di svago per tutti, ricchi e poveri, uomini e donne. Qui a Roma, se vai a Capannelle, su 100 persone, 95 sono uomini, cinque sono donne che si sentono pesci fuor d'acqua. Qui si scommette e basta, con nevrosi. Lì si mangia, si discute, ci si incontra. Dice molto di un popolo, sa?
Da dove le nasce questo amore per l'Inghilterra?
Me lo ha trasmesso Harold Pinter, col suo esempio. Non solo drammaturgo di chiara fama. Ma uomo estremamente umile e generoso. Ogni volta che andavo su a Londra lo chiamavo. Lasciavo un messaggio in segreteria, «Sarò a casa alle 10». E lui alle 10 mi ritelefonava. E se c'era una sua prima si premurava di comprarmi i biglietti. Si rende conto? Pinter che ti invita a un suo spettacolo e ti compra i biglietti. E poi mia madre.
Che fece?
Mi mandò a Londra quando io avevo 19 anni. «A imparare la lingua».
Lungimirante.
Allora la gente si chiedeva ancora se fosse più lontana Torino. Dire Gran Bretagna era come indicare le Indie. Fu giusto andarci, lo capii anni dopo.
In quale circostanza?
Quando mi chiamarono per una parte in Fuga di mezzanotte di Alan Parker, per esempio. Era il 1978. Dovevo interpretare un turco dagli occhi azzurri. Funzionò.
Cos'è il cinema americano?
Leggerezza e collaborazione. È un piacere lavorare con loro. Qui è tutta ansia e piaggeria. Un incubo.
Mattioli, Cavani, Bolognini, Scola, Loy, Montaldo, Rosi...
Ho lavorato con tutti, sì. Ma con Monicelli non quanto avrei voluto. Solo nel '99, in Panni sporchi. L'ho conosciuto tardi, qui a Monti, dove abito e dove anche lui aveva casa. Mi diceva: «Saresti stato perfetto come mio attore». Eh, lo so.
In quale quartiere di Roma è cresciuto?
A Prati.
Quartiere borghese.
Ma non lo era. Ci abitavano gli statali e i parastatali. Le spiego: mia madre aveva una cugina che si era sposata con uno che aveva perso un braccio durante il militare. Il ministero gli aveva assegnato una casa in viale delle Milizie. Molto bella. I cortili allora erano pieni di ragazzini che giocavano e pisciavano sui muri. Gli ascensori grandi. Poi i figli dei parastatali si sono laureati. I figli hanno avuto altri figli, e c'è stato il '68. Da piccolo borghesi sono diventati borghesi. Il liceo “Mamiani”, che io ho frequentato, è stata la centrale di questo cambiamento.
Genitori?
Mia madre ragioniera, mio padre e i miei fratelli tutti bancari. Però mio padre amava il teatro, e mi ci portava. A Santo Stafano, ricordo. Allora era un giorno di spettacolo. Oggi, di chiusura.
Quale materia ha studiato?
Giurisprudenza. Per due anni. Noiosissima. Poi per caso mi sono trovato a fare l'esame di ammissione all'Accademia d'arte drammatica. Portai un testo di Landolfi e uno di D'Annunzio.
E come andò?
Malissimo. Una cosa orribile. Recitai con un'enfasi che neanche un attore dell'Ottocento...
Però?
Il giorno dei risultati io manco ci andai. Venne un amico e mi disse con occhi increduli: ce l’hai fatta. E cominciai la carriera.
Maestri?
Sergio Tofano, negli anni della formazione. E poi Vittorio Gassman.
Maestro severo?
Macché. Non gli interessava mica di insegnare. Io gli chiedevo: «Posso far ridere?», e lui: «Fai come ti pare». Poi se sbagliavi, sbagliavi con le tue mani. Lui era una persona molto colta e accademicamente preparatissima. Leggeva tanti libri.
Gli attori leggono?
Per niente. Sono degli ignorantoni. Mediamente.
La televisione?
Non ne ho fatta tantissima. Ho cercato, come in tutte le cose, di farne poca e di qualità. Poi mi hanno messo la bando.
Cosa combinò?
Nel 1980 mi proposero una parte in Gelosia, di Alfredo Oriani. Uno sceneggiato. Dovevo interpretare un cornuto.
E che c'era di male?
C'era di male che non ce la facevo più a interpretare la parte di cornuti. Avevo già fatto Charles in Madame Bovary, e stesso ruolo ingrato pure nel film di Bolgnini, Fatti di gente per bene (1974).
Quindi disse di no...
Il funzionario, un personaggi con la vocina stridula, provò pure a convincermi: «Ma Bonacelli, ci pensi su. Io posso chiedere al regista di mettere qualcosa di sociale...». Ma che me ne frega del sociale, gli dissi. Io non voglio più fare il cornuto!
Effetti del gran diniego?
Dieci anni di silenzio. E a chi gli faceva il mio nome, i dirigenti Rai non è che replicassero con giudizi o commenti chiari e netti. No, borbottavano. Questa è la prassi: borbottare.
Eppure lei era già molto noto...
Sì, ma non conta. Sa cosa conta invece?
Mi dica...
Un tempo facevo gli autografi. Ora mi chiedono di scattare una foto. Era meglio quando a noi attori veniva chiesto di lasciare un segno, qualcosa di nostro, non crede?
Potrebbe essere un bel finale d'intervista. Ma le devo chiedere di Benigni. Lei è stato Leonardo Da Vinci in “Non ci resta che piangere” e il siciliano in “Johnny Stecchino”.
Roberto è molto generoso. Ma da alcuni anni a questa parte ha cominciato a vergognarsi di far ridere. Per lui la comicità o è alta o non ha più valore.
Sbaglia?
Il comico deve essere cattivo. Mi piacerebbe ritrovare il Benigni che non si faceva scrupoli.
Le pesò il successo commerciale?
No, nient'affatto. Quando scegli testi e lavori di qualità non temi nulla.
Lei ha fatto numerose “Interviste impossibili”, programma radiofonico dei primi anni Settanta dedicato a personaggi della Storia.
Un 'esperienza straordinaria, che rende l'idea di cosa sia stato il servizio pubblico. Testi scritti da Arbasino, Sanguineti, Eco e Manganelli  e letti da attori come Laura Betti o Carmelo Bene.
Che ricordo ha di Bene?
Si inventò la phonè perché era debole di voce. Intuizione straordinaria. Carmelo è stato un grandissimo uomo di teatro. È stato il Gassman degli anni Ottanta. Ma come attore non era superlativo. Rientrava nella media.
Una cosa che lei avrebbe dovuto fare e non ha realizzato?
Un teatro mio, dove sperimentare e dare continuità al mio lavoro. Dieci anni fa avrei potuto farlo. Ma le cose andavano bene, e quando le cose vanno bene tendi a rimandare i progetti. C'è bisogno della crisi per intraprendere le scelte più importanti.
Noto solo ora una cosa.
Cosa?
Non mi ha chiarito il secondo motivo per cui ama l'Inghilterra.
Colpa di questo caldo infernale. Non lo ricordo più.

1 commento:

  1. Grande Attore...e con questa intervista lo stimo anche come persona.

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