sabato 30 aprile 2011

Il lavoro, e beato chi ci crede

Una giornata bagnatissima - sarà - quella di domani. Come la scena raccontata nel film Roma di Federico Fellini, girata sul grande raccordo: lì la telecamera entrava nelle automobili in coda, e tra clacson e cavalli azzoppati restituisce ancora oggi una delle (sur)realtà tipiche della kaputt mundi.
Il regista girò quasi tutta la pellicola nel perimetro di Cinecittà: i vicoli di Trastevere, il Pincio, la stazione Termini. Per risparmiare, forse, e per sottolineare la naturale continuità tra Roma e l'immaginario cinematografico.

Domani l'intuizione felliniana tornerà con prepotenza. Una fiumana di persone, un esercito di comparse riempirà le strade e le piazze della città, dando vita a un colossal in presa diretta. Con canti e speranze, si raccoglierà intorno all'omaggio di un riferimento, un simbolo che per molti anni è stato al centro della vita di ognuno. E che oggi, con la sua assenza, rende più fragili le giornate di chi gli ha creduto.

Domani primo maggio si festeggia il lavoro.

(il miracolo del conclave di sinistra sarebbe eleggere a idea questo pensiero: reddito per tutti. Semo romani, volemose bene, damose da fa')

venerdì 15 aprile 2011

Asor Rosa, Lipperini e il problema

Prima leggete qui.

La bacheca a cui si allude è la mia.
(Mi sia concesso di saltare a pie’ pari sul commento “eutanasia”: tutti sappiamo che in rete chiunque dice la qualunque, così vanno i network, e censurare, più che scorretto, è inutile).
Mia (nostra?) è la colpa di non aver voluto ragionare sulle reali motivazioni che stanno alla base della forzatura di Asor Rosa. È vero. Occasione mancata. Ho preferito dargli del rimbambito che aprire un dibattito sulla fine delle istituzioni. Un po' come quando si liquida Berlusconi con un «quel nano mafioso». Oddio, non proprio così, ma quasi.

giovedì 14 aprile 2011

Il golpe di Asor

«Ciò cui io penso è invece una prova di forza che [...] scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato, congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale». 


Voi direte: Pinochet. No, Alberto Asor Rosa. Qui.


to be continued

mercoledì 13 aprile 2011

La pagina di Milena

Un pomeriggio di alcuni mesi fa mi ha chiamato sul cellulare una preoccupatissima Milena Gabanelli. «Sono Milena Gabanelli». Ho pensato che fosse vero dalla voce. La voce di Report non si confonde. «So che tu sei un esperto di Facebook». No, non sono un esperto di nulla. Ma ci sono cose dove si può fingere esperienza. Facebook è una di quelle. «Qualcuno ha aperto una pagina a mio nome, senza il mio permesso». Il tono si faceva duro, severo. Tanto che per un secondo ho avuto il timore di essere io, il colpevole. «E ora arrivano sulla bacheca di moltissime persone testi a mio nome, documenti e foto che io non ho mai autorizzato».
Avevano semplicemente aperto una pagina pubblica, di quelle dedicate ai personaggi noti, e invitato gli utenti a diventarne fan. «Non mi interessa, io voglio che quella pagina venga chiusa».

Vedendo la puntata di Report dell'altra sera, dedicata appunto a Facebook, mi è tornata in mente questa telefonata. Temo che le critiche mosse al social network da Gabanelli, il tono millenarista e dietrologico con cui ha confezionato l'inchiesta, nasca da lì, da quell'imperdonabile “abuso”, dall'apertura di una pagina che portava scritto nel titolo: «questa è la bacheca dei fan di Milena Gabanelli, la migliore giornalista della televisione italiana».

Berlusconi rende liberi

«C'è un topo in cucina. Finirà che morirà se non l'ammazzo». Dice così il vecchio cieco di Finale di partita di Samuel Beckett, impartendo l'ennesima lezione di vita al servo Clov, di cui è infine dipendente. «Ho pagato Ruby per evitare che si prostituisse», dice Silvio Berlusconi, autore e interprete delle sue operette. Ha una sua logica: assumere il potere sugli altri significa sottrarli al mondo marcio e cattivo, dove regna il caos. Il motto “Il lavoro rende liberi” era affisso all'entrata del lager, non all'uscita.

Verrebbe da aggiungere che Berlusconi ha pagato Fede per evitare che facesse il giornalista. E Gasparri il politico. E Frattini il ministro. E così via.