Avevo nove anni e fortissima fu la sensazione del dito luminoso sulla fronte: «Io resterò sempre qui», prima di risalire sull'astronave e addio. La sala che si accende e mia nonna che maschera la commozione con un sibilo: «bello, eh?». Una volta fuori, dicembre 1982, lei tornò alle sue cose e ai film di parola, io presi a crescere, e al cinema insieme non ci tornammo più.
Trent'anni son passati e riguardatelo se potete. Il capolavoro di Spielberg non ha perso un briciolo della sua magia. Il blu luminescente della notte, la luna bianca sullo sfondo grande quanto un aerostato, lo stupore nel primo piano di Elliot, Drew Barrymore che a sei anni racconta bugie come una diva, le biciclette volanti, la visione ubriaca de L'uomo tranquillo e il più lisergico degli Halloween, e quella creatura così inedita, rugosa e occhiuta, biblica e aliena, lenta nei movimenti, e tenera nello sguardo che posa sulle vite devastate del sobborgo. Vuole solo telefonare ai suoi compagni, E.T., e tornare a casa.
E mentre risale la scaletta dell'astronave trascinando il passo, noi, che restiamo lì impalati col berretto in mano e la bocca aperta, ci maceriamo nel dubbio di aver scelto la parte sbagliata dell'Universo.
Favola capitalistica!, ci dissero. Ultima frontiera della melassa disneyana! Bambi in formato sci-fi! (Come se fossero difetti, pensa te). La cavalcata reaganiana non aiutò la lucidità, e l'antiamericanismo, di nuova potenza fornito, fece strame (anche) di alieni vegetariani e inoffensivi, venuti in pace sulla West Coast non a dirimere la politica, neppure a costruire sul nulla una chiesa, ma a testimoniare la vividezza, la convenienza, la gioia della libertà.
Qualcuno scomodò la dimensione religiosa e messianica dell'extraterrestre, lettura che Spielberg ha sempre negato: «La storia inizia e finisce in ciò che vedete sullo schermo. Una storia di bambini, solitudini e sogni». E.T. non evangelizza, non giudica né confessa. Si limita a esibire le sue specialità e altri mondi con grande pazienza, visto il QI stellare, e per via telepatica. Come nella scena più esilarante: beve la birra trovata in frigo, si ubriaca e ubriaca Elliot, “connesso” da scuola, alle prese con le cavie anfibie per l'ora di biologia. Galvanizza l'amico guardando pellicole di guerra, e ne guida la rivolta: «Liberate le rane, liberate le rane». La classe segue, e in un crescendo tra Esodo e liberazione, tra animaletti impazziti e la voce di un prof che non vediamo mai (il mondo all'altezza dei bambini, i Peanuts), imbocca la porta che conduce all'uscita, dove batte un gran sole. Solo Elliot indugia, il tempo necessario per abbracciare la ragazzina dalle lunghe trecce, e perdersi in un bacio appassionato. Come quello tra Maureen O'Hara e John Wayne diretti da John Ford, che E.T., da casa, consuma e trasmette.
Hollywood, l'animalismo, il Sessantotto, Mosè e il wireless in una scena che avrebbe fatto diventare adulto anche Peter Pan.
No, la strada indicata da Spielberg fu sbarrata da un'era di nuovo conformismo e di furia liberista. La necessità di assottigliare numeri e corpi per rendere più aerodinamico il sistema e dominarne l'ordine ci prese in contropiede. Rimanemmo imbambolati e un po' delusi, incerti se lasciare definitivamente Bambi al suo destino o provare pure noi a costruire trabiccoli con pezzi di giocattoli e ombrelli per spedire messaggi a galassie migliori. «E.T.-telefono-casa».
A star fermi ti scoprono. E quando nel film “i grandi” individuano la casa in cui l'extraterrestre è nascosto e protetto, altro non sanno fare che assediarla. Un cordone di catafalchi da astronauta marcia avvolto in una luce arancione così pastosa da sentirla sulla pelle, calda e lunare. La musica di John Williams, l'eco di Guerre Stellari. Sono i “tecnici” che vengono a prelevare quella “strana” forma di vita, per sezionarla, indagarne il mistero ed eventualmente disarmarlo. Impacchettano la villetta di Elliot come fosse un'opera di Christo e la collegano con un lungo tunnel ombelicale al laboratorio itinerante. I “tecnici”, tra valori ed encefalogramma sballati, tacciono. Nessuno dei loro strumenti sa decifrare quella creatura. Ogni previsione viene frustrata di fronte alla morte di un corpo più freddo del ghiaccio. A loro, così potenti, dotti, attrezzati, non resta che coprirlo con un lenzuolo bianco. E confortarsi reciprocamente con l'idea di aver fatto il possibile per salvarci, da un attacco, da un virus. Dal baratro.
Ma appena gli “adulti” escono dalla stanza il cuore riprende a battere. «Telefono-casa, telefono-casa». I fratelli di E.T. stanno tornando. In sella alle loro biciclette, Elliot e ragazzi si dirigono verso il bosco. È lì che l'astronave planerà. La polizia insegue, pistole alla mano, fino ai limiti del Truman show, poi la realtà irrompe: le biciclette spiccano il volo (come il Miracolo a Milano, trent'anni prima). E.T. ha ripreso colore e temperatura. Si avvicina a Elliot, nel finale più straziante: «Io resterò sempre qui», nella tua mente.
Segna la fronte con quel dito luminoso che faceva volare gli oggetti, guarire le ferite, rinascere le piante. Insorgere contro i professori in nome delle rane. E forse anche far germogliare nella testa di ognuno di noi la lucidità necessaria a spedire nel cosmo – con quel trabiccolo fatto di pezzi di giocattoli, computer e ombrelli –un nuovo segnale: «E.T., siamo pronti, torna a riprenderci».
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