domenica 19 settembre 2010

Irene Pivetti: Il mio motto? Servire il popolo

Non è mai andata bene, Irene Pivetti. Da quando ha esordito, ogni sua scelta è stata accompagnata dalle voci bianche dell’indignazione, sempre pronte – lì – a stigmatizzare abito e monaco. Quando nel 1994 fu eletta a soli 31 anni presidente della Camera (e diamine, cosa volete di più? giovane e donna), editorialisti di rango come Michele Serra scrissero: «La devota Irene Pivetti è la prova vivente dell’esistenza dei miracoli: nessuno può spiegare razionalmente come poté diventare la terza carica dello Stato». Identico tenore quando, alcuni mesi dopo, si trovò suo malgrado nella tormenta post ribaltone. Gianfranco Fini (come cambiano i tempi) la incalzò a più riprese, «dimettiti, non puoi criticare Forza Italia», con allusioni poco velate su una presunta ignoranza istituzionale (data la giovane età della donna, anche qui). E ancora: all’inizio – se vestiva orribili completi a quadri e teneva le mani giunte – era la “pia Irene”. Poi, vestiti più moderni e acconciatura vaporizzata, «ha finalmente conquistato una mascolinità femminea» (Ida Magli. Magari non è un insulto ma suona tanto male). Si sposa con Alberto Brambilla, 10 anni più giovane, e il Transatlantico si trasforma nella bocciofila della morale. «Non è bene, non è bene». E ora che Alberto l’ha lasciata gli stessi giornali di allora titolano: «La fine di una favola». Cacciata dalla Lega («Ha tradito», pronunciato in padano stretto), presiede l’Udeur di Mastella («È l’amante di Clemente») e infine abbandona la politica («Sì, però continua ad avere ufficio e servizi pagati con i soldi pubblici»). Entra in tivvù, si taglia i capelli cortissimi, indossa vestiti sempre più sexy fino a trasformarsi in catwoman e il commento è unanime: «questa è impazzita». Poi però lei appare serena e divertita dalle sue continue avventure e allora – finalmente – la giuria popolare tace. Commette un solo vistoso errore: la partecipazione a Ballando sotto le stelle. Danzare male sta agli occhi come il violino di un principiante agli orecchi.
Poi c’è l’ultimissima notizia. La mancata nomina ad assessore a Reggio Calabria. Avrebbe dovuto promuovere l’immagine della città. Questa volta cos’è che non andava?C’è stata una forte levata di scudi contro il sindaco Giuseppe Raffa da parte del Pdl. Non vogliono assessori non nati a Reggio. Solo politici autoctoni.

C’è del leghismo in Calabria…

La Lega non ha mai avuto questo tipo di preclusioni, scherziamo?
Immagino avesse in cantiere già qualche progetto per la città.
Sì, certo.
Per esempio?
Non glieli racconto. Me li giocherò da qualche altra parte. Sono anni che mi occupo di formazione e territorio. Avrò modo di esprimermi in altre forme. Certo, avere un assessorato alle spalle aiuta.
Uno, per quanto piccolo, già ce l’ha. Al Comune di Berceto, provincia di Parma. Avrebbe avuto il tempo sufficiente, raddoppiando gli impegni istituzionali?
Come ogni madre di famiglia, sì. Avrei rivisto le priorità. Non sono dipendente di una grande azienda. Io lavoro per il novanta percento del mio tempo per la mia onlus (Learn to be free, ndr) e per ora, come è noto, non lavoro in televisione. A Berceto cerco di andarci ogni settimana.
La politica nazionale non le interessa più?
Non quella che in fondo tutti detestiamo. Io devo misurarmi con le cose concrete, altrimenti non vado da nessuna parte. La politica delle strategie, dei facili tatticismi, non mi appassiona.
Lei è una grande delusa dalla politica?
No, affatto. Io sono sopravvissuta alla grande delusione. Certo, ho rischiato. Soprattutto dopo essere stata cacciata dalla Lega. Ho rischiato di essere travolta dall’ondata di chiacchiericcio e qualunquismo imperante.
Però, se si dovesse schierare?
Non saprei come e dove prendere posizione. In un momento così liquido del quadro politico. Abbiamo appena assistito a una tipica rissa all’italiana tra Berlusconi e Fini. Quella del «tenetemi, tenetemi», ha presente? Sembrava la guerra atomica e ora non andiamo a votare perché non ci sono alternative. Queste cose qui le lascio volentieri agli altri. Io sto dalla parte di due giovanotti che vogliono sposarsi.
Ovvero?
L’ho detto a Berceto la scorsa settimana: il fine della politica è far vivere una vita normale a Luca e Maria.
E a Sergio e Franco?
Va bene uguale.
Lei è per le unioni di fatto?
Per le coppie omosessuali senza alcun dubbio. Sono per il riconoscimento di tutti i diritti sostanziali. Ma per le coppie etero che bisogno c’è? Esiste già il matrimonio civile. Veramente, non ne capisco la logica.
Da conservatrice intransigente a liberale. La sua parabola ricorda quella di Gianfranco Fini. A proposito, il leader di Futuro e Libertà, nel 1994, invocò le sue dimissioni da presidente della Camera.
E io, sedici anni dopo, ho detto chiaramente che lui non deve farlo. Non ci sono ragioni costituzionali. Tuttavia non dimentico le sue sparate contro di me dai toni molto coloriti.
Attenuanti?
Era un’epoca diversa. Lui si sbagliava. Ma erano secoli fa. Vede, l’urgenza è un’altra: tutti i presidenti della Camera della seconda Repubblica hanno vissuto la contraddizione tra ruolo istituzionale e dimensione politica. Io, Violante, Casini, Bertinotti e Fini. È una contraddizione che andrebbe sciolta. O facciamo come in America, in cui è espressione della maggioranza e vota per la maggioranza, o come in Inghilterra, dove è di garanzia ma eleggibile a vita, dunque destinato ad una carriera istituzionale.
Quale modello sceglierebbe?
Sono legittimi entrambi. Sempre meglio della situazione attuale. La prima Repubblica aveva la saggezza di non nominare alla Camera segretari di partito. C’è poco da fare. Gli equilibri istituzionali sono il grande tema dei nostri anni. E non capisco perché turbi tanto che Fini fondi un gruppo come Futuro e libertà mentre andava bene quando fondò il Pdl. Gesto che a me colpì molto negativamente. Credo sarebbe più onesto sciogliere questo nodo.
Torniamo ancora al ’94. Dopo il ribaltone lei si trovò a gestire un passaggio delicato. I commentatori dell’epoca raccontano delle sue entrate in Parlamento accompagnate dalle osanna dell’opposizione e dagli attacchi della maggioranza. La regina di Montecitorio.
Regina proletaria. A quei tempi era tutto molto più magmatico di adesso, dilettantesco. La crisi fu aperta subito dopo le elezioni di marzo. Portammo avanti un governo stiracchiato per un anno, e poi venne Dini per un altro anno stitico. La preoccupazione mia e del presidente del Senato Scognamiglio era quella di andare dal presidente della Repubblica e dare l’idea che le istituzioni reggessero. Era diffuso il timore di una destabilizzazione del sistema. Oggi è l’esatto contrario. Alla gente non frega nulla della crisi della politica.
Ne è sicura? Forse c’è solo molta stanchezza. Quella che insorge quando si ha a che fare con i bambini scalmanati e con gli stupidi. «Puoi smetterla di rigare la scrivania di nonno?» ripetuto 400 volte. Alla fine ti stanchi. E così credo sia andata tra gli italiani e gli onorevoli.
Concordo. I politici hanno la responsabilità di non essere riusciti a recuperare la dignità istituzionale dopo Tangentopoli. L’hanno lasciata evaporare. E secondo, c’è una colpa condivisa con tanta parte della stampa: quella di sputare sulla casa comune. Anni di battute sarcastiche su politici corrotti, magna magna, si stava meglio… e una giostra infinita di luoghi comuni.
Questo è un paese per opinionisti.
Qualunque fessacchiotto in tivvù si sente autorizzato a sparare contro i politici. Il famoso titolo dell’Indipendente di 15 anni fa: “Craxi è un ladro” era altra roba. Quelli erano gloriosi assalti all’establishment. Aveva un senso all’epoca. Ma scendere fino ad oggi in cui ogni nano dice la sua perché ha le paturnie…
(Ma i nani, quelli veri, non protestano mai?) Lei conosce bene la televisione.
Io ho alimentato negli anni una grande passione per la televisione popolare. Per l’informazione su cose serie in modo semplice. Una cosa difficilissima ma necessaria.
Ci riuscirono solo i democristiani, per qualche tempo. I manager di adesso non sono in grado.
In Rai e Mediaset c’è troppa pavidità. Chi decide è un gran fifone.
Cosa temono costoro?
Terrorizzati dagli ascolti scelgono le vie già battute: «Gli rifilo un ragionamento superficiale, una cosa già masticata – dicono – così non corro rischi». Basta salire sugli autobus per capire che alla gente non sfugge nulla.
La nomino seduta stante direttora di tutti i palinsesti. Da dove cominciamo?
Dal mettere al bando i luoghi comuni.
Impossibile.
Invece si può fare.
Che programma vorrebbe condurre?
Parlerei di giovani, impresa e Europa.
Mi viene sonno solo a pensarci.
Non è vero. Si può fare in modo divertente. Glielo dimostrerò.
Mentana dice «farò un telegiornale per un pubblico giovane», Bersani vuole «ripartire dai giovani», Berlusconi frequenta «solo giovani», i festival aprono ai giovani. Giovani, giovani, giovani.
Stiamo crescendo una generazione di lamentosi. O forse lo siamo sempre stati. Solo che quando siamo noi adulti, a lamentarci, siamo patetici. Quando lo fanno i giovani, è preoccupante.
Cosa fare?
Dovremmo dargli l’enpowerment.
Doping?
No, è il termine aziendale per l’autoemancipazione. Estendere una conquista storica delle donne a tutta la società. Il lavoro è importante soprattutto per la personalità. Il lavoro dice chi sono.
Quando anni fa le fu chiesto, lei si raccontò così: primo cattolica, poi leghista, poi donna. Oggi l’ordine sarebbe lo stesso?
La dimensione religiosa rimane più forte della dimensione di genere. Magari dico una sciocchezza, ma per me è così.
Leghista non lo è più dal ’96. Con cosa lo sostituiamo?
Mi sono ripresa per intero quello che questo significava: assumersi la responsabilità di aiutare la gente. Sa qual è il mio motto?
Dica.
“Servire il popolo”.
Ahi. Lei condusse un programma, “Bisturi”, dove raccontava storie di donne e uomini comuni alle prese con la chirurgia estetica. Insomma, mise al centro della scena – e prima di altri – la questione del corpo.
Mi accorsi solo dopo di aver aperto uno spaccato su chi siamo noi italiani. Lo facemmo con tenerezza. Era un programma coraggioso, che non cadde mai nella trappola dell’edonismo. C’era la storia del fratello che aveva rotto il naso alla sorella giocando, da piccoli. O la mamma che aveva avuto quattro figli e voleva rimediare alla pancia molle. La ragazza con una sola orecchia a sventola. Ma dicemmo no a giovani che volevano le tette come Pamela Anderson. Con “Bisturi” ho scoperto che la stragrande maggioranza degli italiani non desidera affatto la perfezione, non insegue il materialismo truculento.
Anche lei cambiò il suo corpo. Adottò uno stile sadomaso che ha fatto epoca. E ricordo che, malgrado la polifonia di commenti che si levò da ogniddove, lei interpretò questa trasformazione con assoluta leggerezza.
Semplicemente. Non ritenevo di dare spiegazioni.
Questo fece impazzire molti.
Io sono libera di cambiare la mia vita quando e come voglio. Di certo non avrei mai fatto cose sconvenienti, per rispetto degli altri. Era un mio modo per dire “noi siamo nostri”.
Ma è vero che la sua famiglia la educò al naturismo?
Quella fu una dichiarazione demenziale di una mia ex compagna di classe.
Raccontò che lei, sua sorella (l’attrice Veronica) e i suoi genitori prendevate il tè in veranda tutt’ignudi.
Ecco, appunto, demenziale. Il fondo di verità è che mia madre e mio padre mi hanno educato a una grande confidenza e serenità col corpo. La mia era una famiglia senza senso del tabù. Pudore sì, ma non tabù. E di questo li ringrazio, visto che per la donna il corpo non è un luogo banale.
Quando faceva politica fu bersaglio di mille battute maschiliste. Montanelli disse che tra gli uomini nuovi lei era il più nuovo e il più uomo. Fini dichiarò che lei era l’unico uomo della maggioranza, e via dicendo. La ferirono?
No, per l’amor di Dio. La loro era una mentalità d’altri tempi. Anzi, credo che nella loro testa questi fossero dei complimenti. «È brava come se fosse un maschio». Non puoi pretendere che buoni politici siano anche grandi uomini a tutto tondo.
No?
Se lo ricorda il film “Operazione sottoveste”?
Sì, Blake Edwards, 1959.
La sequenza di quella che deve riparare il motore del sommergibile, e lei ci mette il busto. E lui dice «tu non sei solo una donna, sei molto di più, sei un meccanico». Esiste ancora una fascia di uomini che è così, che ci dobbiamo fare?
Bossi era così?
(sospira) Abbastanza.
Perché entrò nella Lega?
Era la vera rivoluzione democratica. Fui coinvolta per organizzare i cattolici che fino ad allora votavano solo Dc. Mi sentivo protagonista di un movimento gigantesco. Bossi aveva molto carisma. E avevi la sensazione di stare al centro della storia, non scherzo.
Poi finì come finì.
Finì come ogni sbornia giacobina. Servì a coprire una serie di altre faccende che non avevano nulla a che fare con la rivoluzione. Porca miseria…
La Lega è cambiata?
È piena di bravi professionisti. Ottimi amministratori locali.
Ok, ma su piano nazionale?
C’è un prima e un dopo la malattia di Bossi. Prima era un pungolo nel fianco di Berlusconi. Rendeva dinamica l’alleanza. Dopo la malattia ha fatto scelta di assoluto lealismo. È diventato uno stabilizzatore di Berlusconi.
Lei fu cacciata dalla Lega…
Noi facemmo le elezioni sul federalismo. Vincemmo con il 10,4% dei voti. Alla prima riunione del parlamento del Nord se ne escono e dicono: facciamo la secessione. Io replico: dovevamo dirlo prima agli elettori, non dopo. Fui espulsa.
Il 27 marzo del 1997 lei disse che per fronteggiare «l’invasione degli albanesi, sarebbe stato necessario ributtarli in mare». Il giorno dopo la nave militare Sibilla speronò un barcone. Morirono 108 migranti. Tragica coincidenza. Ma le parole pesano. Ripeterebbe quella frase, oggi?
Certo che no. In realtà dissi di mandarli in mare, cioè verso casa loro. E comunque sono stata leggera e sprovveduta. Non voglio nascondermi dietro a un dito. Qualche settimana dopo volli incontrare l’ambasciatore albanese per chiarire. E così feci.
Cosa pensa di Nichi Vendola?
Un’ottima opinione. Mi piaceva già quando stava in Parlamento. E ho apprezzato l’umiltà con cui ha accettato l’incarico di governatore della Puglia. Mi ha indignato quando gli hanno fatto le primarie. Una grande porcheria. Hanno cercato di divorare l’unico leader.
Un tempo dubito che le sarebbe andato a genio un cattolico gay e comunista…
Se dovessimo pettinare tutti i nodi avremmo tutti i capelli lisci. Le contraddizioni vanno risolte solo quando ti rendono infelice.
Papa Ratzinger le piace?
Avevo pregiudizi. invece con il tempo abbiamo scoperto che dietro quell’immagine così… teutonica si nasconde un parroco, attento anche alle piccole sfumature dell’anima. Lo spirito soffia pure in Germania.
Mi spiega perché le hanno affibbiato tantissimi flirt? Secondo il giornalismo italiano lei sarebbe stata con Paolo Flores D’Arcais, Eugenio Scalfari, Gipo Farassino, Antonio Marano, Umberto Bossi, Renato Farina…
Alla lista manca Alfio Marchini. Che poi è l’unica voce su cui sono intervenuta. Si era sposato da poco e aspettava il secondo figlio. Chiamai il responsabile di quel pettegolezzo, Arturo Diaconale, e gli dissi che non c’è nulla di nobile a macchiare la dignità di una signora. Mi mandò un enorme mazzo di fiori. Fu l’unico.
Altri signori?
Cossiga. Matto alla sua maniera, capace di filippiche senza mezzi termini, ma con me e mio marito appena sposati ci difese dal tiro al bersaglio sulla differenza di età.
Alberto Brambilla. Il vostro rapporto si è da poco interrotto. Lo detesta?
Macché. Per me lui è buono bello e intelligente. Veramente, non lo dico per banalizzare.
Cosa non ha funzionato?
Nei rapporti la difficoltà maggiore è la pazienza. Non è mai abbastanza. Serve coniugare il proprio spazio con lo spazio altrui. Io sono un’anarchica, e ho bisogno di molto spazio. E poi l’errore da non fare è pensare che le vere cause dei contrasti siano solo quelle molto nobili. Una mia amica soffriva del tipico calzino lasciato in giro. Il marito gli diceva «tu sei una giornalista, non pensare a queste cose». No, le ho detto, devi fargli capire che quelle piccole cose sono enormi metafore del rispetto.
E ora, senza calzini in giro, teme la solitudine?
No, la solitudine, mi creda, è una grandissima risorsa.

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