Che brutta cosa che può essere la bellezza. Quanta crudeltà e ossessione sprigionano i suoi occhi, abituati nei secoli ad essere omaggiati da élite e oligarchie. Guerre dichiarate per una bellezza sottratta. E i miti e le divinità elette per celebrarla. La bellezza, l'insegna sotto cui si scatenano le più incontrollabili pulsioni. Con un unico rivale: il denaro, diceva Marx, «il solo che può compensare la mancanza di bellezza». Sinonimo dunque di opulenza, privilegio. Capitale. Strumento all'uopo aggressivo, cinico e spietato. La bellezza non olet. E la sua ferocia, col bagaglio di finzioni e meschinità, di effetti speciali e piaggerie, trova nella sua ombra, nell'identità uguale e contraria che si porta dietro dai tempi di Policleto – la bruttezza – il bersaglio prediletto.
La questione è che la bellezza piace. Piace da sempre. Gode di ottima stampa. Basta nominarla per raccogliere voti e promesse. Ha il fascino di una diva del muto. «A me piace», l'affermazione con cui segniamo il confine tra il gusto nostro e l'altrui ci concede il subdolo vanto di poter stabilire cosa sia bello, e cosa lo sia universalmente (Kant lo spiegò meglio). Cadendo nella trappola del conformismo, che stringe in un morso Beltà e Narciso, veniamo condannati a una successione senza fine di modelli, canoni e regole, la cui sola eccezione ammessa è la "bizzarria", curioso interregno tra il piacevole e il disgustoso.
Come il clero con gli eretici, l'apostolo del bello non ammette deroghe al suo ordine mentale. Ebbro del proprio ego – come scrive Nietzsche – «pone nel bello sé stesso come misura della perfezione; considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine».
E per lenire le frequenti delusioni (il bello in alto sta, e le tensioni infiammano cuori e legamenti) si affida all'indignazione: «Che brutti quei palazzi/che brutta gente da quelle parti/che brutta cosa hai appena detto/che brutta la bruttezza». Brutto, che poi diventa a seconda degli umori e delle stagioni, meschino, debole, vile, banale, arbitrario, rozzo, ripugnante, goffo, orrendo, insulso, nauseante, criminoso, spettrale, repellente, sgradevole, abominevole, indecente, immondo, spaventoso, abbietto. Tutti i colori dell'umanità, di cui solo i talenti hanno saputo rivelare l'aura. Fa dire al suo Macbeth, William Shakespeare: «Bello è brutto e brutto è bello», e Flaubert, per descrivere l'orrido berretto di Monsieur Bovary, confessa: «Aveva quell'aria commovente e triste che hanno sempre le cose brutte».
Che la bruttezza sia all'origine del verbo, è una verità contenuta già nelle prime scritture: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto», scrive Isaia (53:2) a proposito di Cristo, smontando in due versi la convinzione di comodo che seguirà per due millenni, durante i quali per opposizione al bello, buono e dunque divino, il brutto diverrà terrificante, demoniaco, streghesco. Donne mostruose abiteranno le composizioni medievali (e fino ai giorni nostri) come quelle rimate dal poeta Rustico Filippi: «Dovunque vai con teco porti il cesso, o vecchia puzzolenta, chiunque ti sta appresso si tura il naso e fugge immantinente. Li denti e le gengìe tue son così aperte che lascian passar l'alito tuo puzzolente». Ma dalla repulsione all'attrazione il passo è breve. E già in prossimità del Barocco l'erudito Carlo Roberto Dati, con l'Orazione in lode e difesa dei brutti, in cui narra della sorte amara di alcuni bellissimi, tra le figure mitologiche di Giacinto, Narciso e Adone (i primi due trasformati in vegetali e il terzo finito sbranato), restituisce al brutto il suo meritato tributo.
L'illuminismo canterà con Voltaire la dignità dei rospi, e il fatidico «è bello ciò che piace» la modernità si popola di "buon selvaggi", e pittori inglesi vagheranno a caccia di sublimi inciviltà e truppe di scrittori francesi con la penna immersa nei bassifondi estrarranno dal letame linfa, letteratura e la Signora delle camelie, l'eroina di tutte le tubercolotiche.
La scienza, non sapendo come dirimere la controversia, affiderà alla morale la soluzione estetica. Cesare Lombroso la fisiognomica, le fronti spioventi e l'attitudine criminale dei brutti (sporchi e cattivi) alimenteranno l'antico vento antisemita (e non solo), per il quale nasi adunchi e volti lividi segnalano «i ripugnanti bastardi ebrei dalle gambe storte» (Hitler). Persino il giovane Franti, nel libro Cuore, passa sotto i ferri della dittatura del bello: «Ci ha qualcosa che mette ribrezzo in quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera».
Ma attenzione, la bruttezza non è lo stigma esclusivo di proletari, esiliati e stranieri. Il virus del "bellismo" colpisce e atterra anche i potenti: lo Zar Alessandro I di Russia fu ribattezzato
"il bulletto pelato", re Vittorio Emanuele III di Savoia divenne "Sciaboletta" per il metro e mezzo di statura. Anni prima i 155 centimentri di Bonaparte venivano canzonati al coro di «Napoleone ha la paglia che gli arriva al naso!». La gobba di Andreotti, il nanismo di Fanfani, il ventre di Spadolini, la pelata di Berlusconi, le rifattezze di Santanché e il dibattito su Rosi Bindi (sulle donne le allusioni estetiche conservano ancora oggi la trivialità del Duecento).
Eppure dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti la mole di bellezza che la bruttezza ha consegnato all'arte e all'immaginario collettivo. Se da una parte il "bello" è incapace a decifrare l'esistente, di scatenare emozioni «oltre i tre giorni» (Bernard Shaw), di confermare l'ovvio e nel blandire i pregiudizi, la bruttezza delle damigelle di Picasso, delle visioni di Dubuffet, dei guizzi iconoclasti delle avanguardie, delle carni di Bacon e delle pulsioni di Pollock, fino al trash più compiuto dei nostri giorni, riesce ad illuminare le opportunità, la coscienza e gli spigoli dei nostri tempi. «La bellezza è epidermica, la bruttezza arriva fino all'osso», diceva Dorothy Parker.
Chiudersi al brutto, rifuggirlo come un morbo, con il terrore di venirne corrotti, riparando dietro al primo simulacro di bellezza che ci capita sotto mano, fosse anche il “sobrio decoro” che pervade buona parte della cultura e politica dei nostri giorni, significa abdicare all'idea di cambiamento. Al contempo, riconoscere alla bruttezza una sua autarchia, le variazioni e sfumature in essa contenute, proclamarne il diritto all'esistenza, sbrinerebbe questo nostro noiosissimo immobilismo.
Celebriamo la bruttezza, dunque, per aprirci con stupore a nuova bellezza.
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