martedì 22 maggio 2012
Sei stata (anche) una grande cantante
La cantante di jazz guardava le locandine del Mocambo, il popolarissimo club di Hollywood, divorandole con gli occhi. Suonare lì voleva dire spiccare il volo. L'impedimento non era il talento, che già aveva ottima stampa e un seguito da far invidia a colleghe più introdotte, ma l'essere una donna afroamericana (erano gli anni Cinquanta, e non si viveva di solo Billy Wilder). Per questo l'amica bionda, anche lei vocalist, allieva di Hal Schaefer, e attrice di fama, vantando un bel credito con quel locale, alzò la cornetta e chiamò il proprietario. «Se ingaggiate Ella – confesserà anni dopo la Fitzgerald – sarò presente ogni sera, seduta al tavolo di fronte al palco». E così fu. «A ogni esibizione era lì. Con i giornalisti ad affollare il locale».
Marilyn - morta 50 anni fa - stava girando Gli uomini preferiscono le bionde (1953) , e forse vedeva in quella signora massiccia e dalla vocalità superlativa il profilo di un sogno che – malgrado tutto il successo che il cinema le andava restituendo – Monroe ha sempre rivendicato: essere una grande interprete jazz. «Non sarò soddisfatta finché le persone vorranno sentirmi cantare senza guardarmi». Per poi aggiungere, alzando la spalla: «Ma non significa che vorrei smettessero del tutto di guardarmi».
Un doppio passo solo apparentemente contraddittorio. Il conflitto tra qualità “interiori” e “leggerezza” esteriore Marilyn lo scioglie con una maestria indimenticata. Labbra sensuali, voce calibrata e un inno alla vita oltre ogni ragionevole dubbio: Diamonds are a Girl's Best Friends. In abito rosa shocking, prima una marcetta in stile Kurt Weil, circondata da uomini in smoking e brillantina, bracconieri inamidati, e poi lei che si sottrae a celebrare le pietre preziose con gorgheggi swing da age d'or.
E poi la musicalità, la sapienza con cui modulava i crescendo e i diminuendo del parlato. Ricordate, in A qualcuno piace caldo (1959), quando trasognante si rivolge a Tony Curtis prossimo al collasso ormonale? «Ho un debole per i suonatori di sassofono, specialmente i sax tenori. Non so che cosa sia ma mi fanno impazzire. Non hanno che da suonare otto battute di "Mia malinconica bambina" e la mia spina dorsale si affloscia mi viene la pelle d'oca e gli casco tra le braccia». La sensualità, stampata sugli occhi inebetiti di milioni di spettatori, non detonava senza quella voce (magnificamente doppiata da Rosetta Calavetta) capace di alternare il sussurro alla voluttà nel giro di una battuta.
Dedicò metà dei suoi 36 anni di vita a consolidare la dizione e il canto, studiando standard e tecniche. Ma come una lieve condanna, che sia un piano americano o un totale in wagon-lit, la sua presenza scenica appanna il resto. «Marilyn aveva lo stesso problema di Fred Astaire: erano entrambi meravigliosi cantanti, eppure non penseresti mai a loro come vocalist», ha detto pochi mesi fa Gary Giddins, il decano della critica jazz americana, in un'intervista all'Herald Tribune. C'è un disco in cui il ballerino accompagna con il suo tip-tap il pianoforte di Oscar Peterson. «Fred Astaire – ha ricordato recentemente il jazzista Roberto Gatto – era un bravissimo batterista. Lui e Marilyn erano in grado, come altri grandi, di fare bene tutto». Destini comuni di due personaggi esemplari della scena hollywoodiana, e insieme irregolari.
Monroe ha cantanto in dieci pellicole, da Orchidea bionda del 1948, fino all'ultimo Facciamo l'amore, 1960, ha inciso tre album delle colonne sonore e ha immortalato, di solo maglione e collant vestita, un capolavoro come My heart belongs to Daddy (Il mio cuore appartiene a papà). Riguardatevi il video in rete. Ci sono tutti i colori della diva: l'ironia, la seduzione, la sfrontatezza, l'abbandono e un senso del tempo, nel ritmo con cui “ritarda” il fraseggio, capace di piegare Yves Montand, nella scena adorante e in penombra, in una indimenticabile posa da stoccafisso. «Mi chinai per darle il bacio della buonanotte, ma d'un tratto il bacio si fece selvaggio, un incendio, un uragano. Non potevo fermarmi», così raccontò l'esordio della loro relazione.
Avrebbe voluto essere altro da ciò che fu, Marilyn? Lei, capace di rendere intellettualmente desiderabile un libro di Joyce stampato su carta ossidata, rispose al Madison Square Garden, due mesi prima di morire, con i trenta secondi più imitati della storia dello spettacolo. Era il 1962, mr President John Kennedy compiva gli anni e lei salì su palco per intonare Happy birthday. Accompagnata solo dal piano – coperto dalle risate del pubblico (come se fosse uno sketch comico) – Marilyn gioca con i microfoni, condisce la performance di mossette e autocitazioni continue, insistendo con lentezza su un «to you» che ben altro evocava. Per quell'ultima esibizione, che molti giudicarono la parodia di se stessa, l'atto finale di una tragedia in forma di commedia di una giovane donna schiacciata dagli eventi, il sipario sulla creatura ingenua e dal talento naturale (e dunque non allenato, curato, organizzato), per preparare quel commiato così breve, fatto di sedici battute e per giunta informali, per portare sul palco la struggente decadenza e il fascino di Marilyn Monroe, Norma Jeane provò e riprovò per più di otto ore. Dimostrando di essere esattamente ciò che voleva essere, sognando di essere Ella.
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