L'uomo che vien da Chieti cura con amore le sue idee. È il loro miglior supporter. Le considera imprescindibili. A loro bada, ma non a se stesso. Come i poeti e i musici jazz di certa fotografia, Marchionne è ossessionato unicamente da ciò che deve comporre, dal mondo che non lo capisce, da un futuro che lui solo può vedere. Avvolto dal fumo, confessa la missione: «Dobbiamo essere paranoici. Il percorso è difficilissimo. Siamo dei sopravvissuti e l'onore dei sopravvissuti è sopravvivere». C'è nell'uomo un'emergenza più esistenziale che economica: l'importante per Marchionne sembrerebbe non tanto la soluzione dei processi, quanto la loro fine, l'archiviazione, la consegna. È mosso da un "gran rifiuto" così grande da travolgere ogni segno di vita.
Al di là della posa da cavaliere dell'informale, il Nostro fuma ottanta sigarette al giorno, alternando le Marlboro rosse alle Philip Morris ultra light. Ha i denti ingialliti e mal messi. Sotto gli occhi borse dello stesso colore dei maglioncini di cui è ambasciatore: blu petrolio. Dorme pochissimo, solo alcune ore a notte. Beve acqua minerale, e a giudicare dal giro vita e dal colore della pelle la dieta potrebbe essere a base di acido fenico. Lo sport preferito è correre in Ferrari. Ogni tanto ne distrugge una, e poi riparte. Dell'Avvocato, campione dell'apparire ed emblema di un tempo lontanissimo, Marchionne notava e invidiava solo il potere: «Mi interessava il suo contorno. Ciò che riusciva a muovere con un gesto».
Sebbene sia una macchina da guerra imperiale, sul volto di questo laureato in legge e quasi dottore in filosofia da due milioni e mezzo l'anno, c'è uno sguardo da ragazzone timido, obliquo e sfuggente. Allucinato dalla convinzione che gli altri, in fondo, non lo meritino. «È sempre stato un solitario», raccontano gli amici canadesi, «pronto alla battuta e permaloso». In una recente conferenza stampa dedicata alla nuova creatura Fiat-Crysler Freemont (e a guardare la foto ti chiedi: ci sarà un motivo per cui i due marchi stavano fallendo?), Sergio "il metalmeccanico" (come ama definirsi) ha interrotto stizzito il cronista de l'Unità con quel suo italiano tendente all'erre moscia: «Ok, tu fai il tuo giornale che io faccio le vetture, ok? Andiamo avanti». Ha sbottato, insomma. Come si sbottava ai tavoli dell'Associazione Carabinieri (sezione di Toronto), sui quali Marchionne figlio e padre Concezio, maresciallo, si prodigavano in lunghe briscolate.
Disadorno e casual come un Bonaga d'alta finanza, l'ex commercialista che ascolta musica classica e Fabrizio De Andrè ricorda, nella sua ruvidezza, la Bestia dell'omonima fiaba, «O fai come dico io, o passerai i tuoi giorni incatenata», rivolto alla Bella (la fabbrica, il Paese, le parti sociali). Ma in Marchionne, a differenza del mostro peloso, non alberga alcuna traccia d'amore. Nessun incantesimo o prodigio sembra poterlo trasformare in un principe e invertire il suo e il nostro destino. L'ostinazione ha superato numeri e lumi. È l'Alberto Sordi dei Vitelloni, dopo la festa di carnevale: «Siete tutti nessuno!», gridava ubriaco e sincero. Messo all'angolo dagli eventi (ossia da se stesso), Marchionne tira fuori tutta la sua ambiguità, che non sta, come vorrebbe Augias, nell'equivoco tra il salvatore della patria o il profittatore d'impresa, ma nell'aver scelto di nutrire in vita le ragioni di una lenta morte. Il lento svanire di ogni entusiasmo per l'anno che verrà.
Di fronte alla sorda caparbietà di Marchionne, così comune nella biografia del nuovo capitalismo, cannibalico e funesto e solitario, (opposto per certi versi alla protervia un po' caciarona dei Della Valle), viene in mente l'incipit della fortunata autobiografia del tennista Andre Agassi, Open. Gliela dedichiamo, per la sua e la nostra salvezza: «Apro gli occhi e non so dove sono o chi sono. Non è una novità: ho passato metà della mia vita senza saperlo. Eppure oggi è diverso. È una confusione più terrificante. Più totale. Alzo lo sguardo. Sono disteso sul pavimento accanto al letto. Adesso ricordo. Sono passato dal letto al pavimento nel cuore della notte. Lo faccio quasi tutte le notti. Giova alla mia schiena. Troppe ore su un materasso morbido sono un'agonia. Conto fino a tre, poi inizio a tirarmi su: un processo lungo e difficile. Con un colpo di tosse e un mugolio rotolo sul fianco, poi mi raggomitolo in posizione fetale, infine mi giro a pancia sotto. Adesso rimango in attesa che il sangue inizi a circolare».
Al di là della posa da cavaliere dell'informale, il Nostro fuma ottanta sigarette al giorno, alternando le Marlboro rosse alle Philip Morris ultra light. Ha i denti ingialliti e mal messi. Sotto gli occhi borse dello stesso colore dei maglioncini di cui è ambasciatore: blu petrolio. Dorme pochissimo, solo alcune ore a notte. Beve acqua minerale, e a giudicare dal giro vita e dal colore della pelle la dieta potrebbe essere a base di acido fenico. Lo sport preferito è correre in Ferrari. Ogni tanto ne distrugge una, e poi riparte. Dell'Avvocato, campione dell'apparire ed emblema di un tempo lontanissimo, Marchionne notava e invidiava solo il potere: «Mi interessava il suo contorno. Ciò che riusciva a muovere con un gesto».
Sebbene sia una macchina da guerra imperiale, sul volto di questo laureato in legge e quasi dottore in filosofia da due milioni e mezzo l'anno, c'è uno sguardo da ragazzone timido, obliquo e sfuggente. Allucinato dalla convinzione che gli altri, in fondo, non lo meritino. «È sempre stato un solitario», raccontano gli amici canadesi, «pronto alla battuta e permaloso». In una recente conferenza stampa dedicata alla nuova creatura Fiat-Crysler Freemont (e a guardare la foto ti chiedi: ci sarà un motivo per cui i due marchi stavano fallendo?), Sergio "il metalmeccanico" (come ama definirsi) ha interrotto stizzito il cronista de l'Unità con quel suo italiano tendente all'erre moscia: «Ok, tu fai il tuo giornale che io faccio le vetture, ok? Andiamo avanti». Ha sbottato, insomma. Come si sbottava ai tavoli dell'Associazione Carabinieri (sezione di Toronto), sui quali Marchionne figlio e padre Concezio, maresciallo, si prodigavano in lunghe briscolate.
Disadorno e casual come un Bonaga d'alta finanza, l'ex commercialista che ascolta musica classica e Fabrizio De Andrè ricorda, nella sua ruvidezza, la Bestia dell'omonima fiaba, «O fai come dico io, o passerai i tuoi giorni incatenata», rivolto alla Bella (la fabbrica, il Paese, le parti sociali). Ma in Marchionne, a differenza del mostro peloso, non alberga alcuna traccia d'amore. Nessun incantesimo o prodigio sembra poterlo trasformare in un principe e invertire il suo e il nostro destino. L'ostinazione ha superato numeri e lumi. È l'Alberto Sordi dei Vitelloni, dopo la festa di carnevale: «Siete tutti nessuno!», gridava ubriaco e sincero. Messo all'angolo dagli eventi (ossia da se stesso), Marchionne tira fuori tutta la sua ambiguità, che non sta, come vorrebbe Augias, nell'equivoco tra il salvatore della patria o il profittatore d'impresa, ma nell'aver scelto di nutrire in vita le ragioni di una lenta morte. Il lento svanire di ogni entusiasmo per l'anno che verrà.
Di fronte alla sorda caparbietà di Marchionne, così comune nella biografia del nuovo capitalismo, cannibalico e funesto e solitario, (opposto per certi versi alla protervia un po' caciarona dei Della Valle), viene in mente l'incipit della fortunata autobiografia del tennista Andre Agassi, Open. Gliela dedichiamo, per la sua e la nostra salvezza: «Apro gli occhi e non so dove sono o chi sono. Non è una novità: ho passato metà della mia vita senza saperlo. Eppure oggi è diverso. È una confusione più terrificante. Più totale. Alzo lo sguardo. Sono disteso sul pavimento accanto al letto. Adesso ricordo. Sono passato dal letto al pavimento nel cuore della notte. Lo faccio quasi tutte le notti. Giova alla mia schiena. Troppe ore su un materasso morbido sono un'agonia. Conto fino a tre, poi inizio a tirarmi su: un processo lungo e difficile. Con un colpo di tosse e un mugolio rotolo sul fianco, poi mi raggomitolo in posizione fetale, infine mi giro a pancia sotto. Adesso rimango in attesa che il sangue inizi a circolare».
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