Molti di noi cominciarono a consumare il pensiero rude di Taricone in totale clandestinità. Raccontammo frottole, pur di spiare - senza dover render conto - amplessi e strategie amorose del Grande fratello, edizione prima. Si godeva come ricci. Pietro Taricone è stato l’ultimo brivido politicamente scorretto a non rientrare nella categoria dei comici. Seppe sedurre Cristina Pievani detta Tristina in una manciata di secondi, pronunciando quattro parole dell'Apocalisse: «Io so’ omme, tu sì femmina».
Ci fece all’ammore dopo aver attrezzato con una coperta e due asciugamani un talamo di fortuna. Dodici milioni di italiani celebrarono così il ritorno del merlo senza pudore. Che non veniva fuori da un B-movie o da una sceneggiatura volutamente volgare. Era farina del sacco di un brillante bullo di Caserta allergico ai parolai e ai paraculi, e stracarico di ormoni in festa. «Guagliò, Cristina è sensibile, ma nella realtà è Marina che ti arrapa. Non cammina, sfila». E alla domanda di Cristina, gelosa e affranta: «Ma provi sentimenti per me?», rispondeva «E che è ‘na domanda chista? Chist’è nu tema». Standing ovation.
Pietro piace. È macho, sì, e sensibile. Volitivo e generoso. E più colto degli autori stessi. «Cosa leggo? Sarebbe facile dire Umiliati ed offesi oppure Guerra e pace. Quelli li hanno letti tutti (sic). Mi piace rivendicare il diritto di leggere la saga di Conan». Con la disinvoltura di un tuttologo passa dalle lezioni di fitness – toccando sapiente e piacione l’addome delle compagne (“Se non conosci i tuoi centri energetici non vai da nessuna parte») – ai racconti di vita vissuta, di quando amministrava i condomini di Caserta con la sua società di servizi per 700mila lire al mese. E delle elezioni comunali per le quali si candidò a 22 anni tra le fila della Lista Dini. Ottanta voti e una foto con Lamberto il ranocchio.
Si è sempre definito di destra. «Mio padre faceva il direttore del personale in fabbrica. Era quello che doveva licenziare. E quando lo vedevo tornare a casa triste davo la colpa ai sindacati». Affascinato da Berlusconi («È un uomo del fare, come me» ) e da Sylvester Stallone («per anni ho indossato i Ray Ban a goccia di Cobra»), ha saputo cogliere la doppia morale di chi lo circondava con lo stile di Ennio Flaiano: «All’inzio con lui (Mathias, il ragazzo nero della seconda edizione del Grande fratello) tutti facevano gli amiconi e i democratici. Poi l’hanno lasciato con l’aspirapolvere in mano. Gli vogliono far fare il maggiordomo, fra un po’ gli mettono i guanti bianchi e lo fanno dormire con le galline. Questo è razzismo. Mathias, ribellati! Ascolta il leone che è in te!». E giù a ruggire in un ruggito corale, lungo tutto il paese, immigrati e nativi, grandi e piccini.
Contraddittorio e pavone, inneggia ai giacobini francesi, intona canti partigiani, valorizza ogni singolo concorrente, chiarendo la prospettiva storica - «Ormai esiste una categoria televisiva nuova: coloro che hanno fatto il Grande fratello. Dovremmo riunirci in un sindacato» - e indicando il Palazzo d’inverno: «Siamo tutti figli di Publitalia». Condottiero, iscritto per nome nella storia, «Taricone, come Napoleone, come Cecchi Paone…», che un giorno si arrabbiò come un’aquila perché il Telegatto "categoria cultura" non lo vinse la sua Macchina del tempo (un format americano di divulgazione scientifica) ma il Grande fratello. «Ha fatto bene ad incazzarsi. Cosa c’entra il reality con la cultura? Che cosa c’entra la cultura con la televisione?».
Macina milioni di lire, 20 milioni solo per una serata in discoteca, così, a presenziare. Le ragazzine urlano, i ragazzini pure. «Dopo il Gf, ho abitato in un albergo e comprato un'auto dietro l'altra, sputtanandomi tutti i soldi. E durante il tour per locali, andavo a letto con una diversa a sera. Molte lo facevano anche solo per poter dire “sono stata con Taricone”. Ero diventato una medaglia». Copertine di giornali, proposte, ospitate a destra e manca, e soprattutto il privilegio destinato a pochi di poter dire «no, al tuo show non vengo» a Maurizio Costanzo (che se lo legò al sesto dito, quello delle vendette programmate).
Ma intanto un virus apparentemente leggero si stava impossessando di quel corpo gladiatoreo. Testimonianza ne sia questa frase: «Ho anche una popolarità negativa. Ogni tanto vado a villa Ada. Ci sono quei tipi della vecchia borghesia romana che quando mi vedono fanno subito a gara per dire: “L’ho riconosciuto meno io”. “Io non so chi sia”. “Io non l’ho guardato nemmeno”».
Negli indefessi ammiratori di Taricone si fa strada l'idea che la criptonite del guerriero possa essere quella di "piacere a sinistra", conquistare la stima della gauche capitolina. «Le intellettuali, le giornaliste, le ragazzette che lavoravano per l’immagine ed erano innamorate dei cliché… Madonna… Lenny Kravitz. Taricone no. Taricone è troppo Little Italy… non è trendy. Perfino le commesse della Feltrinelli quando entro si mettono a ridere. Ma per me le donne di cultura sono intriganti, che devo fa’?».
L’anima del guerriero si stava graffiando. Le antiche e probe rudezze di un tempo stavano cedendo il posto a interessi di luce intimista, a riflessioni in tono minore, lasciando al loro destino le migliaia di tarìc sparsi per il paese e a bocca asciutta i puri dell’opinionismo. È riapparso qualche anno dopo (secoli, per la televisione) con “Distretto di polizia”, “Don Gnocchi”, “La nuova squadra” e altri telefilm, “Radio West” al cinema. Teatro, videoclip e opinionista con Piroso. Diversamente da molti attori, Taricone si è impegnato a recitare, non ad ammiccare.
Odiava la televisione che lo aveva creato. «Mai andrò dalla De Filippi a cantare con Tony Dallara», diceva. Ha difeso Roberto Saviano dagli attacchi di Berlusconi e ha sposato la collega Kasia, con cui ha avuto una figlia. L’amore per la campagna e per i cavalli ha spodestato quello per le fuoriserie. Dall’estremamente grande al preziosamente piccolo, direbbe qualcuno. Anche per questo suona fuori registro la retorica marziale con cui CasaPound (per cui Taricone aveva organizzato il “Gruppo paracadutisti Istinto rapace”) ha partecipato ai suoi funerali: “Muore giovane chi è caro agli dèi”.
È morto a trentacinque anni, mille biografie alle spalle e una grande voglia di sperimentare cose intelligenti. L’armata brancaleone dei maschi singolari porterà nel cuore le sue graffiate da leone e le straordinarie considerazioni senz’appello. Ma soprattutto in molti firmerebbero carte false per ripartire da lì, da quando – per il loro e il nostro piacere – Cristina e Pietro ripararono nel talamo. Era il 2000. Lontani da Genova, dalle torri, dalle guerre. Clark Kent era ancora Superman.
Nessun commento:
Posta un commento