
Passeggiando per i teatri imperiali di Leningrado, lo slavista Angelo Maria Ripellino, con lo sguardo rivolto ai grandi arazzi rubini adagiati su stucchi e ritratti di maestri di scena, domandava: «Majakovskij, Mejerchol'd, Ejzenštejn, dove siete finiti?». All'eroico (ed erotico) trio della rivoluzione maiuscola, lo scrittore si appellava con lo stesso incanto che diffondeva camminando per i corridoi dell'università romana, quando in faccia ai muri e ai tordi, citando il Vladimir, urlava «Parrucchiere, mi pettini le orecchie!». Incanto sì, in Ripellino, ma anche tanta troppa mestizia c'era in quell'appello inascoltato, per l'opacità che andava divorando il tempo suo e quello a venire. Era la fine degli anni Cinquanta, e «lo stalinismo già volpeggiava negli arcani casamenti di Kafka».