martedì 3 gennaio 2012

La liberazione di Liberazione


E se il destino di una testata fosse in qualche modo legato alla topografia della redazione? Repubblica, per esempio, è stretta tra una banca e la Cristoforo Colombo e ha la forma di un'ammiraglia per le Americhe. Il Messaggero: "bow window" sul Tritone e cortile sulla Questura, è antico come lo struscio di quella parte di città. Oppure lo specchio riflettente di Palazzo Chigi che è Il Tempo: vivrà tanto quanto la colonna romana che lo impala. Rannicchiato alle pendici del Bottegone, Il Riformista ha trasformato il "vecchio" in vintage, come il disegno della sua testata. E il manifesto? Ora è altrove, ma la sua strada, quella che per anni ne fu sinonimo, rimane via Tomacelli: la sua fortuna è cresciuta all'incrocio tra la bohème di via Ripetta e piazza del Popolo.

In questo gioco di destini topografici, Liberazione ha una sua peculiarità. Lontana dai colli romani, sta in un viale di mezzo, sputato dal sottopassaggio Borghese tra il quartierissimo San Lorenzo e le villette liberty del Nomentano. Ha una collocazione da piazza metafisica, per usare un cliché. L'ospedale e l'università da un parte, la stazione e la Rinascente dall'altra, le mura aureliane di fronte, il ministero a due passi. Il set della città, col suo centro e le sue arterie. Un tempo futura, nell'idea di molti, oggi eclissata, nella realtà e nell'immaginario, dalla scure di nuovi e vecchi desertificatori.

Non serve certo cambiare indirizzo per scongiurare la sorte del quotidiano. La sua chiusura (l’edizione digitale, grazie ai lavoratori in occupazione permanente, uscirà ogni giorno sul sito) deve ai tagli del governo “dei ragionieri” l’atto finale di uno stillicidio che potremmo riassumere, intonando la filosofia  facilona per cui “la-crisi-può-essere-un'occasione”, in un rapido schema. (breve premessa: chi scrive non ha mai lavorato in viale del Policlinico, non ha questioni personali, eccetera).

L'editore di Liberazione è un partito, Rifondazione. Un partito, oggi, è una cosa strana. Nel pieno di una crisi senza precedenti, è superato a sinistra da movimenti e associazioni molto più efficaci e partecipate. Loro indicano l’obiettivo, i partiti seguono. È accaduto, esempi recenti, con i referendum e le amministrative. Non che un giornale di carta sia una cosa meno bizzarra. Impagina  notizie e commenti intorno a un'agenda che buona parte dei lettori si è già bella che compilata il giorno prima, navigando su e giù. Un giornale ha la redazione, i corrispondenti, gli inviati e la tipografia. Costi alti, e pochissimi clienti.

Eppure, malgrado i broker dessero la combinazione di questi due elementi come drasticamente perdente, Liberazione ha rappresentato una delle testate di riferimento del dissenso antagonista degli ultimi 20 anni, capace inoltre di garantire visibilità e continuità al partito (e non viceversa). Si potrebbe affermare che Liberazione sia nata e cresciuta malgrado Rifondazione. Anche perché «un giornale è un giornale è un giornale», come diceva Luigi Pintor per sottolineare l’autonomia del prodotto dal potere. E indicando nei giornalisti e poligrafici che lo fanno gli unici depositari del suo valore. A non tutti i retori del pensiero critico questo assunto è ancora chiaro.

Oggi non è più plausibile che una notizia o un'analisi vivano al traino della “linea politica”. Un organo di partito non ha più senso né consenso. Tanto da aver ceduto il posto (non saprei quanto preferibile) ai “giornali-partito”, con notizie e analisi ricondotte ad una linea editoriale così dura e netta da risultare spesso ossessiva. Repubblica, per esempio. O Il Fatto, il cui successo non è dovuto solo alla celebrità mediatica di Marco Travaglio, quanto alla capacità di confezionare un “brutto giornale” per i “brutti pensieri” del lettore in cerca di “brutte soluzioni”.  È però un giornale “popolare”. Come lo era (ma era bello) Paese Sera: voluto dal Pci per estendere il consenso oltre il recinto (e alla fine ci riuscì così bene da piacere a molti, e assai più dell'Unità) fu chiuso da Botteghe Oscure nell’83, dopo l'affermazione di Repubblica, malgrado la buona salute. Il ruolo di “fiancheggiatore” è esaurito, dissero i compagni, troppo costoso, non sempre in linea e altre cosucce. Il risultato? I giornalisti (tra i migliori) a spasso, l'archivio disperso e rianimazioni fallite. Il partito aveva suicidato una delle iniziative più efficaci (anche ai fini elettorali) che aveva in mano. Non per distrazione, ma per semplice, terrificante, supponente, anacronistica ignoranza.

Intorno a Liberazione, si ha l'impressione sia scattato – fatte le proporzioni – lo stesso tic. Certo, i tagli di Monti, calcolati con la ratio di una tosatrice, daranno un colpo pesantissimo non solo ai lavoratori del quotidiano, ma all'informazione in generale, con quel presupposto demagogico per cui la stampa dovrebbe vivere “di vendite”. Ma le trattative possibili e legittima pretesa di finanziamenti dovranno fare da preludio alla madre delle battaglie: divincolarsi dalla corda dei burocrati e godere di tutto l’ossigeno che quel collettivo redazionale merita. La liberazione di Liberazione. Questo è l'augurio.

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