Non toccate il soldato Kim Dotcom. Al fondatore di MegaUpload e di Megavideo, l'impero dello scrocco cinematografico, inesauribile fonte di film taroccati a cui tutti ci siamo abbeverati, non andrebbe torto un capello. Per coerenza (nostra) andrebbe trattato alla stregua di un benefattore ribelle, di un generoso nerd sovrappeso che ha scelto di donare all'umanità i frutti dell'ingegno. Ma l'irriconoscenza domina, il potere non si smentisce, e così gli uomini in nero dell'Fbi lo hanno caricato in macchina recitando una lunga lista di capi d'accusa (dalla pirateria alla ricettazione) e promettendo 50 anni di galera. Senza sapere che più che consegnare un pericoloso criminale alla legge, stavano contribuendo, e manco poco, alla prima guerra via bit. Quella tra le truppe degli scaricatori di file e le multinazionali di varia specie, la cui fragilità si è trasformata in ferocia.
Di origini finnico-tedesche, mr Dotcom (al secolo Kim Schmitz) lo scorso 20 gennaio stava preparando il suo 38mo compleanno, quando una dozzina di agenti di tutto punto armati e un elicottero hanno bussato alla porta della villa milionaria nei pressi di Auckland (Nuova Zelanda). Il bottino: macchine di lusso, schermi da mille pollici, denari in quantità e lui, un ragazzone di due metri per 136 chili di peso, appassionato di rally e moto d'acqua, mente e portafoglio del più grande impero dell'intrattenimento senza bollino Siae.
Al suo arresto è seguita la chiusura dei siti con prefisso mega, interrompendo bruscamente milioni di partecipati streaming (in prevalenza porno) e provocando seri danni a utenti che iscritti al servizio dell'hosting. File di lavoro e personali finiti nelle mani dell'Fbi, e ad oggi non ancora utilizzabili.
In effetti, a guardar bene, Dotcom si è sempre difeso (sono anni che gioca a guardie e ladri) dietro l'alibi dell'upload: sonmo gli utentia caricare il materiale illegale, noi ci limitiamo ad ospitarlo, dice l'intrepido tycoon. Come fa Youtube. Solo che da quelle parti, al primo accenno di violazione del copyright, cancellano. Dotcom era meno solerte. Concorrenza? Per ora, agli atti, c'è la trasformazione di Youtube da network sociale del video, a piattaforma multicanale: i contenuti sono sempre più gestiti dalle case madri (dalla Warner Bors alla Rai) in cambio di un controllo poliziesco sugli illeciti. E il tesoretto dei mega-smanettoni (2 milioni solo in Italia) val bene una messa in galera.
Ma non basta. Compagno Kim stava per mettere on line il suo progetto più ambizioso, quello che avrebbe dato un calcio definitivo a tutti gli intermediari della produzione immateriale: Megabox, la variante musicale della sua galassia. Vendita diretta, con il 99 percento dei proventi in tasca ai musicisti, piena qualità e tanti altri servizi. Una roba da miliardi condotta con Kaseem Deam, marito della superstar R&B Alicia Keys (già pupilla di Quincy Jones), e, nel ruolo di testimonial, vip del coattume Mtv come Jay Z e Puffy D.
Secondo molti osservatori, Megabox sarebbe stato il colpo definitivo ai danni di una industria discografica morente non già per l'offensiva pirata (dati dimostrano che il consumo libero di film e canzoni danneggiano in forma marginale gli entroiti) quanto per la sua dimensione economica prettamente autoreferenziale.
Nel frattempo, mentre Dotcom e le sue auto venivano condotti davanti al giudice, le comunità ribelli di Anonymous oscuravano e hackeravano numerose vetrine del potere Usa (dai siti della Universal a quelli delle polizie). Nessuno tocchi Kim, era lo slogan, cogliendo nell'immediato la vera intenzione dei federali d'oltreoceano: colpire per via molesta ciò che non era stato possibile colpire per via politica. Era di pochi giorni prima infatti la batosta a danno delle leggi antipirateria Sopa e Pipa, battute da uno sciopero planetario di blogger e semplici navigatori, con l'avallo di Obama, memore dei vataggi della rete libera.
Malgrado la dichiarazione di guerra da parte dell'industria dell'intrattenimento online, gran parte della comunità web si è interrogata sul profilo di Kim Dotcom, sull'opportunità o meno della sua difesa. Scrive Paolo Attivissimo, tra i commentatori più seguiti in Italia: «Sicuri di volerlo presentare come paladino della lotta contro la censura per la libertà di Internet? Un conto è il file sharing senza scopo di lucro; un altro è lucrare sul file sharing». E sulla rivista Wired: «Kim Schmitz operava nel business della soddisfazione dei bisogni degli utenti in maniera non diversa da come Al Capone faceva quando contrabbandava alcol».
Anche qui, come nei salotti letterari e politici, il dibattito è stato dominato dalla ventata moralista. Se il malcapitato fosse o non fosse degno di portare la bandiera pirata. Le anime candide stigmatizzano jacuzzi, modelle e fuoriserie (con cui Kim amava farsi fotografare a mo' di studentello eccitato) fedeli al motto cinese "la rivoluzione non è un pranza di gala", senza considerare che quel giovane milliardario che per anni ha distribuito (quasi) gratuitamente antidoti alla noia e all'ignoranza, sta per dire addio allo status di uomo libero. Potremmo dunque riconsiderare l'obolo pagato dai tanti utenti premium, e i proventi intascati dall'abile cialtrone, come una magra, magrissima ricompensa?
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