domenica 29 gennaio 2012

L'inno del corpo sinistro


Lo so, chiedere a me, maschio manco troppo plurale, di scrivere un articolo sul corpo e la sinistra, con a fianco l’intervista a Lea Melandri (cfr. Gli Altri settimanale del 3 febbraio), è come mettersi comodi, aprire il sipario e godersi la buccia di banana. (È il ventesimo incipit che scrivo e forse l’unico che merita la lettura). Ora, se compongo queste righe non è (solo) per presunzione, ma perché camminando su e giù per il vuoto mentale mi sono ricordato di Giampaolo Pansa, e di un suo articolo del lontanissimo 1999. C’era la guerra dei Balcani, e gli italiani, governo D’Alema, come ricorderete, spedirono da par loro una dozzina di aerei su Belgrado. L’allora editorialista dell’Espresso scrisse un pezzo contro chi era contro. Massimalisti, velleitari, estremisti, eccetera. Io, che non ero di nessun partito e chiesa – ma a domanda rispondevo genericamente: sono antagonista – prima di partire per la base Nato di Aviano e ivi protestare, scrissi una lettera al compagno Pansa che oggi definiremmo “indignatissima”, per esporre le mie ragioni. L’ho persa, ma il finale suonava più o meno così: «...per questo noi abbiamo deciso di stare lì dove decollerà la morte, per testimoniare un’alternativa possibile. E lo faremo con i nostri corpi». A parte il tono da crociato, l’intuizione non era niente male. Invece di usare termini come “idee”, “bandiere” o “slogan” – che certo non mancarono – parlai di “corpo”, quella cosa con cui facevo l’amore e che gratificavo con calorie e sigarette.
Presumo che il mio interlocutore ne fu spiazzato (col cavolo che Pansa mi rispose). Molta parte della sua generazione considerava il corpo alla stregua di un basamento di carne su cui poggiare testa, cervello e ragione, uniche gemme degne di cura. Suppongo che a lui, la sola idea di corpi indisciplinati a cavallo di aerei pieni di fuoco, abbia trasmesso un che di pornografico. Ma la forza stava lì, nello scandalo, nel muovere il punto di vista dal “realismo” della politica atlantista alla vita nella sua interezza. Era il femminismo che riverberava nelle nostre orecchie a farci sposare con convinzione quel lessico libero dalla doppia condanna di essere o militanti (la rivoluzione) o macabri (i nostri martiri).

Perché, mentre il “corpo” di destra, totalitario ed esibito (Mussolini e Berlusconi), mi era abbastanza chiaro, quello di sinistra risultava più contraddittorio. Avevo a mia disposizione pochi e personali riferimenti: uno risaliva ai tempi del liceo, quando vestivamo come teletubbies depressi, con maglioni fuori misura così da poter avvolgere le mani con le maniche, le scarpe anfibie bombate e, per lei, le calze coprenti color carne. L’importante era nascondere, sottrarre alla vista, uniformare il proprio corpo a un profilo che, suppongo, avesse più a che fare con le piaghe della psiche che con l’iconografia socialista. L’altro ricordo è indiretto, e appartiene alla storia dei grandicultidel-comunismo.

A Mosca lustri fa visitai la salma in formalina di Lenin. Una rappresentazione così solenne della vita eterna da diventare per tutti noi, lì in piedi e in silenzioso rispetto, un frustrante memento mori. Anche da vivi valiamo meno del timoniere morto (che metafora!). Come il montaggio visivo dei funerali di Togliatti e di Berlinguer. L’occasione per le telecamere, con i piani sequenza sui volti di contadini, operai e studenti, di narrare il popolo e il suo “corpo”. Un’operazione più cinematografica che documentale, non a caso. Il corpo, insomma, aveva valore solo nella sua veste “ideologica”. Venne poi Pasolini. E i Radicali, affamati, imbavagliati, piegati e nicotinizzati. Imbattibili nella loro interpretazione del corpo martoriato.

Lutto, martirio, sacrificio. Come se dominasse su noi materialisti una sorta di gigantesco senso di colpa, atavico e costantemente rinnovato. Lo dobbiamo alla nostra inadeguatezza di fronte alle balle che ci siamo raccontati (sole dell’avvenire e via dicendo)? O all’idea messianica di un paradiso degli eguali a cui rimandare la realizzazione dei desideri? Non saprei, e altri lo avranno spiegato meglio. Però una cosa posso sostenerla: a Genova, dove speravo di conferire alla missiva indirizzata a Pansa la statura di un’impresa collettiva, perdemmo, e di brutto, perché finimmo a scimmiottare la guerra, che invece fa sul serio, e uccide. L’idea di spalancarci al mondo e al futuro, precipitò, anche lì, nell’epilogo più consueto, nel déjà vu più macabro.

Dopo quella sconfitta gran parte della sinistra, anche “di movimento”, si chiuse a testuggine nella sua presunta “dignità”, nell’essere intrinsecamente “differente”, nello stigma del corpo priapeo di Berlusconi, al grido de «Il fallo è nudo», e nella difesa del “corpo delle donne” come articolo deluxe da preservare. Recitare la parte dei custodi della morale ha difeso la sinistra politica dalla paura dell’invecchiamento, ma non l’ha certo aiutata a sconfiggere le destre. A cominciare da quella che alberga dentro di lei. Possiamo liberarci di questa vecchia pellaccia, e riabbracciare felici i nostri corpi? Forse sì, a piedi nudi in Zuccotti park.

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