venerdì 6 maggio 2011

Centri sociali

L'Ikea è il luogo dove – no, non ci sono dati scientifici, pura indagine sul campo – si consumano i litigi più strazianti della storia delle coppie. Si entra con la voglia di metter su famiglia, si esce con il desiderio di sterminarla. Il bacio collettivo in risposta alle dichiarazioni del sottosegretario Giovanardi ha mitigato questa verità, trasformando i grandi magazzini nel quartier generale dell'amor profano e dei diritti universali. Il flash mob pomiciante sotto l’insegna giallo blu ha reso il mobilificio svedese uno spazio non solo sociale – l'oggetto stesso del consumo, dove spendere (appunto) il proprio tempo – ma finalmente politico. Un timido inizio (come quello contro la violenta titolare di Tezenis, a Porta di Roma), in uno dei luoghi deputati allo svago, secondo statistiche recenti, del 35 percento dei ragazzi (il resto si divide tra il bar sotto casa, lo stadio e la cameretta).

In un centro commerciale ci vanno tutti: giovani, anziani, famiglie, ricchi, poveri, colti, ignoranti, nativi, migranti, etero, gay, truzzi, emo, di sinistra e di destra. Si fa jogging come fosse un parco (cercate in rete mall walking), si prega (l'arcivescovo di Catanzaro ci fa messa tutte le domeniche) e si impara a consumare meno (fioriscono festival sul riciclo). È una galassia rassicurante: non ci sono vicoli bui, oscurità, degrado. Ma solo spazi ampi, sonorizzati, climatizzati, coperti da una vigilanza pressoché totale e il divieto assoluto di fumare. Quale miglior posto a cui affidare i figli?

Il centro commerciale – altro che “non luogo” – è la città nella sua forma perfetta, il centro geometrico in cui le aspirazioni secolari – mostrarsi, scoprire, possedere – coincidono con il rito più esibito dall’immaginario mediatico: l’acquisto. Che qui, da gesto pratico e perlopiù occasionale, si trasforma in una sorta di “patto” di cittadinanza. Il centro commerciale non ti obbliga a comperare. Ma non farlo, non seguire questa regola, passeggiare per gallerie e vetrine senza desiderare di possedere tutto, può essere oltremodo alienante, e causa di pesante frustrazione, anche sociale.

Concetti da non confondere con la perdita. Regola aurea dei grandi magazzini: perdere il senso di sé. Perdere il senso del luogo. Perdere buona parte delle libertà personali in nome del diritto alla (libera) circolazione. Perdita delle identità. Tra ristoranti e ipermercati si è tutti uguali. Si è qui ed ora. In uno spazio che non ammette ideologie (e dunque futuro).

Anche per questa ragione le cittadelle dello shopping, la cui “leggerezza” è dovuta al fatto di non essere depositarie di alcuna memoria, stanno velocemente sostituendo il ruolo dei centri storici, musei a cielo aperto e senza vita (se non addirittura militarizzati, come nella romana Campo de' Fiori). Al concetto di “società”, morente e liquida, si sovrappone quello di “comunità” desideranti e disciplinate, nate e cresciute all'interno di strutture dal doppio carattere pubblico/privato, cattedrali dell’“economia dell’attenzione”, dottrina con lo scopo di creare un mercato (ovvero un sistema di scambi, materiali e affettivi) in cui i consumatori siano davvero felici. E se fosse questo il laboratorio – questa miscela di desiderio, perdita e comunità – dove sperimentare le migliori ragioni? Dove ritrovare l'umanità, la politica e il conflitto. Per poi scendere di nuovo a valle, e riprendersi la città.
Dovrebbe essere così. In fondo, le storie più belle iniziano con un bacio.

p.s. «Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte […] dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo». Era il 1602, i versi sono del filosofo Tommaso Campanella, dall'opera sua più famosa: La città del sole.


pubblicato su Gli Altri

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