martedì 24 maggio 2011

Biennale, 200 apostoli e un papa

Sapete quel matitone rosso e blu dell’ufficio censura? Quando il funzionario vergò di rosso vaste parti dell’adattamento del Galileo di Bertolt Brecht, Angelo Maria Ripellino disse, voltando le spalle: «No, grazie». Era il giubilante 1950, e il testo tra i più anticlericali della storia. Ma il celebre slavista rinunciò alla messa in scena, non volendo «fare una cosa brutta».
Ha fatto una cosa brutta Olivero Rinaldi, autore della statua che saluta i pendolari romani. Un grosso Woytjla dal corpo cavo e dall’ampia capa. Ha fuso il bronzo nelle forge di soprintendenti, vescovi, sindaci e governatori, dando alla luce un corpo disumano, tronfio, burocratico, così lontano da quello piegato e “in croce” del beato papa, da costringere i fedeli stessi, di solito così tolleranti in fatto di icone, a dire: «Non gli assomiglia per niente».

Il sassofonista Ornette Coleman portò in giro per il mondo insieme ad altri il free jazz, l’arte dell’improvvisazione spinta agli estremi. Quella che molti, costretti all’ascolto, definiscono «rumore». Beh, Coleman fu invitato negli anni Sessanta a partecipare a un convegno di architetti. Proprio per testimoniare la bruttezza.

Nel presentare il suo saggio sul brutto, Umberto Eco comunicò all’editore una sequenza di aggettivi che ne descrivessero la ricchezza: meschino, debole, vile, banale, casuale, arbitrario, rozzo, ripugnante, goffo, orrendo, insulso, nauseante, criminoso, spettrale, satanico, repellente, sgradevole, grottesco, abominevole, odioso, indecente, immondo, spaventoso, abbietto, spiacevole e indecente. Al punto che l’editore esclamò: «Che bello!».

Insomma, il brutto e il bello sono sostantivi che, sebbene sfuggenti, hanno sempre svolazzato liberi tra il senso e il non senso delle cose d’arte. Si sono sovrapposti, dati il cambio, mascherati dell’un l’altro, beccati con odio, accoppiati con amore. Una dialettica che ha dato sollievo, angoscia, piacere e tanti soldi. E che solo una cosa può annientare come un maglio perforante: la retorica. “L’arte non è cosa nostra”, è il titolo del Padiglione Italia, di cui Vittorio Sgarbi è direttore. Come a dire: fuori le mafie e le conventicole da questo mondo (e da questo mercato). Opponendo, come vedremo, una soluzione di puro e antico statalismo. Mafia o Stato. La morsa fatale di tutto. Arte, scienze e affetti. Di fronte all’insegna “Biennale” (4 giugno-27 novembre), kermesse già agonizzante, il critico ferrarese ha così esordito, zittendo la metà più ingombrante: “d’arte”.

Come si espugnano le attività umane da un luogo e da un tempo? Soffocandole. Togliendo loro l’ossigeno necessario per compiere i passi dovuti. E come si toglie l’ossigeno? Occupando interamente l’atmosfera con corpi fuori misura. E quali sono questi corpi? I 200 vip, latinisti, ex ministri, sociologi, opinionisti, cantanti, preti, scrittori, editori e matematici, chiamati a indicare gli artisti con dignità di presenza. L’intervento sul Corriere della Sera del giurista Michele Ainis (anch’egli tra gli optimes) chiarisce lo spirito di cooptazione: «Quella di Sgarbi è una rivoluzione costituzionale [...] La sua idea d’aprire al mondo la Biennale riecheggia il 1791, quando il Salon schiuse i battenti a tutti gli artisti parigini, non più soltanto a quelli benedetti dall’Académie des Beaux-Arts […] L’unica politica culturale democratica è quella che operi in soccorso delle culture deboli, delle energie artistiche depresse e periferiche, lontane dal gusto delle masse o dalle grazie dei signori del mercato». Parole che suonerebbero sante, se non fosse che non siamo nel 1791 e che Sergio Zavoli (anch’egli tra i 200) non è Henri Louis Alexandre de Launay.

No, Sgarbi ha guardato, e forse invidiato, il successo di “Vieni via con me” e di Roberto Saviano, ha colto la forza dell’“elenco”, i 10 motivi per cui…, la forma perfetta degli appelli da prima pagina, i manifesti per un nuovo qualcosa, con vecchi saggi tra i firmatari. Ecco, Sgarbi ha preso quelle cose là, le ha proporzionate al suo ego, e trasformato il Padiglione nella più grande vetrina d’Occidente dedicata alle personalità. Tanto che il giochetto in gran voga è scorrere il social network della curatela, la lista dei selezionatori, pescati nei migliori salotti e progressisti, per poi esclamare: «Ehi, c’è anche Lucio Dalla». L’intento è riuscito. Il cerchio dell’autoreferenzialità si è chiuso, replica senza distorsioni dell’antico vizio degli intellettuali italiani – sempre in cerca di un altare. Il conclave dei porporati ha eletto (unico candidato) il papa con gli occhiali.

«Lui è il verbo», ha sentenziato il sodale Morgan, prima che la Rai chiudesse il loro programma per noia. Il “verbo”. Come Cristo, che con la sua mano segna un prima e un dopo. O come Ennio Doris, quello di Mediolanum, che col bastone della vita traccia sulla sabbia i confini intorno a te. Sgarbi è la parola, e i 200 sacerdoti gli apostoli. È il canone dell’ultima Fiera del libro di Torino. Centocinquanta testi “imprescindibili” per la storia di un paese che unito non è mai stato. Un altro elenco, lungo, inutile, tutto al maschile, retorico, demagogico, «per portare il lettore a conoscenza della sua identità», hanno detto gli organizzatori. Che suona come l’obiettivo veneziano: «mostrare al pubblico l’arte più periferica». Passaggi da inceppamento logico. Perché non andare oltre, allora, e delegare la selezione degli artisti a una classe di bambini, secondo la misura dei loro «ooh»? Aridatece i critici e gli storici, verrebbe da dire.

Sgarbi l’audace è preparato e furbissimo. Convinto di fare una cosa innovativa, catapulta tutti noi sessant’anni indietro quando, memori del ritorno all’ordine e dei suoi danni, gli intellettuali formularono un assunto: l’arte non va portata al popolo, come pretende di fare ogni cultura autoritaria, ma rispettata nella sua autonomia. L’ex sottosegretario, invece, allergico al passo leggero, ha tentato (minacciando dimissioni e mettendo in campo soldi e rapporti personali) di raccogliere intorno al 54mo Padiglione Italia l’intero paese. Oltre alla laguna, ventinove città, 20 regioni, musei, fondazioni, istituti d’arte, studi grafici e un numero fuori misura di artisti di varia specie e qualità, buttati dentro come succedeva per i ministeri lustri fa. Una spedizione dei mille, quella “sgarbata”, che più che liberare l’Italia dalle maglie eccetera eccetera, sembrerebbe imbrigliarla dentro una nuova burocrazia, confusa e personale. Che spinge l’arte, quella cosa fatta di luce forme e concetti, nell’angolo riservato agli accessori. Tirata fuori solo per validare l’ambaradan che le si muove attorno: l’euforico direttore, il “gran rifiuto” da parte di autori spiazzati dal malo trattamento (avvisati in ritardo e via mail, costi di trasporto a loro carico, catalogo a pagamento) o dall’appartenenza politica di Sgarbi, e quei 200 apostoli, che resistere non hanno saputo alla chiamata del loro nome, e alla tentazione di fare l’Italia dell’arte.
Al di là del bello e del brutto.

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P. s. Angelo Maria Ripellino lo aveva capito:

Tra due-trecento anni la vita sarà migliore.
Ma intanto noi siamo ormai alla frontiera,
senza gli angeli di Elohim precipita la scala del Novecento,
e il Duemila già sventola la sua bandiera
per coloro che sono sicuri di entrarvi.
Io resterò da questa parte, in questo buio,
in questo viluppo di meschinità e bisogno,
senza conoscere il terso luccichìo del futuro.
A me sarà bastato visitarlo nel sogno,
come uno sciamàno che scenda con piatti e sonagli
nel reame dei morti a conversare coi lèmuri.
Resterò sulla porta come un rèprobo, come uno spergiuro.
Perché scusatemi, posteri, che freddo,
che vitreo deserto, che uniformità, che sbaragli
soffiano da quel futuro.

da Notizie dal diluvio (1969-76), Einaudi 2007, p. 78 (nazione indiana)

pubblicato su Gli Altri

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