martedì 15 marzo 2011

Questo è un paese per Vecchioni (e Jovanotti)

È così arsa, la gola della piazza, che la vittoria sanremese di Roberto Vecchioni ha avuto l'effetto di una pasticca balsamica. Con un brano che si ha come l'impressione di ascoltare da oltre 30 anni, il paroliere di Carate Brianza ha dimostrato alla sinistra in cerca d'autore che il consenso è a portata di mano. Senza spargimenti di sangue e gazebo.
Per marketing o patriottismo, e sospinto dal vento della Giovine Italia di Fazio, Saviano e Benigni, l’autore di Samarcanda concluso il festival si è gettato nel pellegrinaggio obbligato (dentro e fuori la tivvù) della buona retorica.


Lo scorso 12 marzo a piazza del Popolo, tra due alti striscioni neri e una scritta monumentale (“Costituzione”),  Vecchioni è salito sul palco per intonare il suo ultimo successo, Chiamami ancora amore. Con in pugno tanti tricolore quanti mai se ne sono visti neppure a una finale di campionato, il pubblico manifestante si è unito al “professore” per sostenere la sua lirica, un inno di Mameli fresco di penna, dal chiaro intento civico e indignante: «Per l’operaio che non ha più il suo lavoro/per chi ha vent’anni e se ne sta a morire/in un deserto come in un porcile/e per tutti i ragazzi e le ragazze/che difendono un libro, un libro vero/così belli a gridare nelle piazze/perché stanno uccidendo il pensiero».

Pochi giorni prima era andato ospite ad Amici, il programma inventato e condotto da Maria De Filippi (che da anni insieme a Xfactor salva Sanremo e mercato discografico, senza neppure una nota di merito dal Quirinale), ad omaggiare lo sforzo dei ragazzi presenti e a tributare alla conduttrice la virtù della meritocrazia: «Trasmissioni come queste salvano la musica italiana dalla terribile crisi che sta vivendo. Dobbiamo fare i conti con la società dei consumi e del successo impellente. A questo punto il talent show, imponendo una selezione, è quasi meglio di tante false operazioni commerciali che ci obbligano ad ascoltare questo o quel cantante dalla “breve vita artistica”».

A Domenica in ha difeso tutto ciò che di “pubblico” è sotto attacco – cioè tutto – e spezzato una lancia a favore dei diritti civili. «Non sono gay, ma sto dalla parte dei gay». In poche mosse, da cantautore un po' imbalsamato, prof. Vecchioni è diventato un riferimento per molti neorisorgimentali. Dov'è il segreto?
Nelle ore della morte di Nilla Pizzi - una delle più grandi interpreti italiane (sia detto con perentorietà) - ho telefonato a Tony Bungaro, autore per Fiorella Mannoia, Gianni Morandi, Tosca e big vari. Uno che ha saputo fornire a giovani imberbi come Valerio Scanu, Marco Mengoni e Giusy Ferreri testi e musiche per il loro ingresso in società. Gli ho chiesto – con un gran giro di parole – cosa si dovesse fare per essere Roberto Vecchioni, per vincere l’esposizione canora più importante d’Italia e scalzare dal juke box della rinascita La canzone popolare di Ivano Fossati.

La sua risposta è tanto semplice quanto illuminante: «La vittoria di Vecchioni è quella di un pubblico che di solito è distratto. Lui ha saputo “sparare in faccia” alcune chiare verità. Ha rivelato alle persone ciò che hanno dentro, dando una forma a quei pensieri. Sta tutto qui il meccanismo: se attraverso la tua proposta dimostri una progettualità, che di solito pianifichi prima di arrivare a Sanremo, è molto probabile che tu emergerai. Quello è un palco che premia chi ha un pensiero. È valso per Carmen Consoli, per i Negramaro ed Elisa. Vale oggi per Vecchioni, l'unico ad avere il fisique du role per poter dire quelle cose, anche se attraverso una canzone non originalissima. Lui ha sempre fatto protesta sentimentale».
Un progetto, un pensiero, una motrice con cui agganciare i binari dell'attualità. E cantarne le gesta. Ma la locomotiva di Vecchioni si spinge oltre. Cerca e rintraccia in quel successo l'evidenza di un limite più politico. Lo dice a un cronista del Messaggero, con il piglio di chi sa che ad ascoltarlo - in questo caso - non è il pubblico dell'Ariston, ma quello del Pala Sharp di Milano (dove ancora risuonano le citazioni kantiane di Umberto Eco): «È chiaro che la canzone d’autore deve andare verso il popolo».

Vecchioni usa la metafora musicale per parlare ai capi dell'opposizione. È evidente. Un appello ai compagni affinché recuperino la loro antica missione: educare. E che ricorda, nella sintesi e nel tono, un passaggio del compagno Mario Alicata, discepolo di quell'altro super arbitro culturale che è stato Andrej Ždanov, e messaggero del pensiero togliattiano, che così scriveva nel 1946, in polemica con Il Politecnico di Elio Vittorini: «Dobbiamo ristabilire un contatto produttivo tra la nostra cultura e gli interessi e i problemi concreti delle grandi masse». «Occorre creare un vasto movimento di interessi morali e pratici tra i ceti medi e intellettuali, per gettare un ponte tra questi ceti e le masse lavoratrici», aggiungeva Alicata, pensando forse chissà anche perché no, a Sanremo.

Bisognava essere realisti. Non si capisce bene se per amore della realtà o del re. Ma l'appello al “contatto produttivo” fu un colpo basso (e fuori fuoco) alla fantasia, all'autonomia dell'arte, ai giovani furiosi che dei limoni gialli di Renato Guttuso ne avevano le tasche piene. Alla libertà del pensiero, che nella mente appesantita dei funzionari va sempre semplificata, banalizzata, infarcita di retorica fino a farsi “piffero della rivoluzione”.
Padri, maestri, alti messaggi e popolo. Tanto popolo. Quanti contromano nella frenetica via italiana al tricolore. (Che al librettista piace anche perché fa rima con amore).

p.s. Scrive il critico musicale Michele Monina su Nazione Indiana: «Vecchioni è un furbetto che ha voluto sfruttare il malcontento per dare una defibrillata non tanto a una sinistra sonnacchiosa e morente, ma a una carriera che da decenni non dice niente di buono. Uno che dichiara di aver intuito, superata la soglia della terza età, che si può mischiare alto e basso, seguendo la strada di Modugno e Tenco […] ci sta prendendo un po’ per il culo». Monina è cattivo?
pubblicato su Gli Altri

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