– Luglio, col bene che ti voglio, porta un premio in dono al narrator di Puglia che con un libro tosto, di lingua ricca e schietta, racconta la vicenda di una ragazzetta che dagli scogli e il mare, a seguire il padre, in Svizzera finì. Mimì. E lì, conoscerà un amore e l'inizio di una cosa con un nome, Ternitti, che non bisognava respirare. Poi, donna, con Arianna, tornata giù, fiera e sorprendente, l'intero paese da sopra un tetto finalmente riscattò –. Bene, con questa filastrocca sbilenca noi imbuchiamo nella cassetta del Premio Strega la nostra preferenza: vota Mario, vota Mario Desiati. Ci piace la sua protagonista, l'italiano e il dialetto salentino, le feste sacre e la modernità, il Sud arcaico e un Nord infinito e disperato, la vigliaccheria dei maschi e la forza delle vedove, la loro solitudine. E quel mostro dal nome poco conosciuto: asbestosi. La malattia avvelenata d'amianto che negli anni Sessanta divorò il corpo di centinaia di lavoratori pugliesi saliti a Zurigo senza armi e con pochi bagagli. Porteremmo fortuna a questo 34enne già pluripremiato così come fu per la scorsa edizione con Antonio Pennacchi, che a noi solo dovette la vittoria? Desiati dice no, non sarà così.
Perché, Desiati, non crede nel nostro tocco portafortuna?
Vincerà Edoardo Nesi con “Storia della mia gente”. È sicuro. È una vittoria annunciata.
Questo il pronostico ufficiale. Ma, secondo lei, chi dovrebbe vincerlo?
Nesi. Lui ha scritto un libro come se si fosse tolto un pezzo di sé. Lo merita.
Lei l'autopromozione non sa cosa sia, vero? O finge di non saperlo.
«Esclusi i presenti» è la premessa, certo.
Luciana Castellina?
“La scoperta del mondo” è il suo primo libro. Ha meno medaglie in petto per vincere.
Perché lei, Desiati, si iscrisse a giurisprudenza?
Mio padre è un avvocato.
Di solito uno si iscrive a Legge perché non sa se vuole diventare pittore o regista o fotografo...
È vero. È la più classica delle non scelte. Molti scrittori della mia regione hanno riempito le aule di diritto dell'Università di Bari: Carofiglio, Lagioia, Piva e il regista del mio Paese delle spose infelici, Pippo Mezzapesa.
Ha imparato qualcosa durante quegli anni?
L'università mi ha dato il metodo, questo sì. E il metodo è necessario, se vuoi scrivere un romanzo. E siccome era questo che volevo fare, mi sono laureato il prima possibile. A 23 anni.
Tesi?
Sulla responsabilità oggettiva di padroni e committenti.
Desiati come Di Vittorio.
Sostenevo come per qualunque tipo di danno provocato da un dipendente sul posto di lavoro la responsabilità fosse sempre del committente e del padrone. Per questa si parla di “responsabilità oggettiva”. Gli aspetti giuslavoristi sono sempre presenti nei miei lavori.
Il “grande romanzo” deve stare dalla parte degli ultimi?
È l'annosa questione dei due partiti letterari: quello europeo, di matrice russa, e quello americano, che racconta sempre i vincitori. Io, venendo dal Sud, dal cielo grigio di Taranto, la parte più problematica del meridione, conosco la terra dei perdenti. Sono dalla parte della pietà, della grazia. Sì, dalla parte del mondo dei vinti. Anche perché i vincitori raramente mi affascinano.
Qual è la lingua dei vinti?
Per me è la poesia. Lì mi sono formato. Tra le pagine di Rocco Scotellaro e Vittorio Bodini. Sono cresciuto con i versi barocchi, concentrati sul dettaglio, amplificati fino quasi a esplodere. Composizioni arcimboldesche. È la sintassi che cerca di osare, di arrivare al cuore rompendo le regole del linguaggio.
Arriva anche al cuore della critica?
Per l'editoria, mondo a cui peraltro appartengo, è una scelta non facile. Attualmente la scrittura più condivisa è quella minimal, pulita e diretta. Quella che raggiunge più facilmente il maggior numero di lettori.
Eppure ci sono lingue barocche che riescono ad essere anche popolari. Le narrazioni di Nichi Vendola piacciono un sacco.
Vendola viene dalle mie stesse letture. Infatti anche lui lavora sulla suggestione, sull'aspetto visionario. È un tratto, il suo, che può appartenere solo a un politico meridionale.
Berlusconi e Bossi?
Credo non abbiano molta dimestichezza con i loro scrittori padani. Temo che non sappiano neanche chi sono. La loro, che lingua è? Sono dei suoni. Registrati e a ciclo continuo. Da quanti anni sentiamo da Berlusconi il solito fraseggio?
C'è anche una lingua televisiva che negli anni è cambiata.
Più che i linguaggi della tivvù mainstream mi affascinano quelli delle televisioni locali. Io vengo dalla terra dell'ex sindaco tarantino Giancarlo Cito. Il Berlusconi ante litteram.
Quale era il vostro canale di riferimento?
Accendevamo Antenna Taranto 6, e lì si svolgevano i dibattiti. E tutto quel trash nei palinsesti che però aveva il sapore della libertà.
Tornando al suo romanzo “Ternitti” (eternit), un sentimento che spesso ricorre nelle recensioni, e affibbiato ai protagonisti, è quello dell'indignazione.
È un termine che non mi piace molto. Dall'indignazione sono nati anche regimi totalitari. Va usato con molta cautela. Con questo sentimento tu costruisci un nemico, rischiando di creare un pastone dove buttare dentro tutti, buoni e cattivi. In Ternitti la protagonista affronta i momenti complessi della vita non con rabbia, ma con una gentilezza che rimanda alla forma di lotta più alta che ci proviene dal Novecento, quella di Gandhi. L'indignazione è manipolabile...
Le sue eroine sono sempre donne.
Nel nostro paese, più che un conflitto generazionale vedo un conflitto di genere. Le manifestazioni del 13 febbraio scorso hanno condotto dritte dritte ai 27 milioni di fanculo che si è preso Berlusconi nell'ultimo referendum. Ha visto i “giovani” fare lo stesso?
Mimì come affronta il conflitto di genere?
Lo vive senza vittimismo e prendendo l'iniziativa. Senza attendere che altri lo facciano per lei. Molte donne del Sud, quando diventano sole, fanno questo passo. La solitudine spesso è una condizione necessaria. Che porta all'emancipazione.
Cerchiamo di sdrammatizzare questo suo femminismo con una domanda da prima serata: cosa non sopporta delle donne?
Cosa non sopporto? Da dove devo iniziare?
I maschi, come li vede? Messi male?
Direi che dipende dalle stagioni. Quelle dei trentenni è un disastro. Non so se lei ne fa parte.
Dei trentenni o del disastro?
Bè, comunque sono dei temporeggiatori, spesso sono la parte debole del triangolo: quando una donna lascia un trentenne, lo fa per un cinquantenne o un ventenne. La generazione nostra è quella che si è fermata il 21 luglio del 2001, a piazza Alimonda. È stata fermata dai manganelli e si è fermata per mancanza di coraggio. Non è riuscita a portare fino in fondo la rivoluzione culturale che aveva avviato.
Cosa non funzionò?
Non era chiaro il nemico da abbattere. Non era chiaro chi fossero i padri da abbattere.
I suoi colleghi Nicola Lagioia e Antonio Scurati parlano di “generazione senza trauma”.
Non sono d'accordo. I traumi ci sono stati. Uno è Genova. Ma vi ricordate che aria si respirava, anche nei mesi precedenti? Pesantissima. Poi io vissi anche altri traumi: quelli del movimento del tifo organizzato, per esempio. Anche lì è successo qualcosa. Le curve erano diventate il luogo deputato dell'antagonismo. Quasi sempre anarchico e apartitico. Altro che destra, come vuole la vulgata giornalistica. La mia tifoseria era quella del Martina, e il motto era “fuori i simboli dalle curva”. Ma ci si è fermati lì. La nostra generazione è molto più conservatrice di quella che ci ha preceduto.
Un affresco desolante. E allora perché alla generazione TQ (trenta quarantenni) avete dedicato un appello per la riscossa?
L'incontro alla Laterza, con decine di intervenuti, tra scrittori, editor e giornalisti, è stato solo l'inizio per capire quale percorso intraprendere.
Una proposta concreta?
Quella a favore di un intervento nelle scuole, avanzata da Elena Stancanelli, per invogliare i ragazzi alla lettura.
Non stavate lì per fare comunella, no?
Alcuni giornali hanno descritto male l'iniziativa, mettendoci in bocca cose come «vogliamo il ricambio generazionale», «vogliamo il nostro posto»...
È stato detto.
Sì, ma da pochi e a titolo personale. In realtà è stata l'occasione per uscire da Facebook e incontrarsi di persona. Non è poco.
Lei vive a Roma. È un emigrante?
Può oggi un trentenne o un quarantenne definirsi emigrato? Non credo. Si può definire fuorisede. Oggi si mantengono più facilmente le radici con il luogo d'origine. La nostra è emigrazione di persone sole, non di famiglie. Negli anni Sessanta emigravano in Germania i capofamiglia, e con loro tutto il ceppo famigliare. Oggi si lasciano i genitori nel paese. E spesso ti ritrovi a fare una vita più ostica di quella che faresti laggiù, mestieri che non ti permettono di pareggiare il bilancio. Problemi che magari non avresti se continuassi a vivere con i tuoi.
Infatti: perché non si rimane al caldo?
Perché dal Sud si parte per ragioni esistenziali. In Foto di classe ho scritto del ragazzo omosessuale, di quello che aveva aperto un negozio presto fallito, e così via. Spesso i motivi non sono prettamente economici.
Ha nostalgia?
Io vivo di nostalgie.
Martina Franca, il suo paese.
Di Martina mi manca qualunque cosa. La domenica mattina. L'odore di focaccia e pomodoro abbrustolito sulla fiamma altissima. L'or de fuc.
Che significa?
L'espressione è interessante. Può voler dire sia l'odore (del fuoco) che l'ora, che l'anima. L'aura. E l'aura della mia città è il fuoco dei forni a legna che la mattina bruciano i rami d'ulivo, sulla cui cenere si cucina lungo tutto il giorno.
A proposito di luoghi: per scrivere “Ternitti” lei è andato in Svizzera a visitare le fabbriche. È un modo per raccogliere informazioni o per farsi ispirare?
Entrambe. Anche se la cosa più feconda è andare via, dai luoghi. E scrivere di ciò che ti rimane addosso. Peraltro il miglior libro sull'America l'ha scritto Kafka, che in America non ci andò mai.
A “Nuovi Argomenti” lei ha lavorato con Enzo Siciliano. Lui era bravo a mettere in relazione persone e idee.
Aveva imparato da Pasolini, che si narra volesse pubblicare sulla rivista tutti i manoscritti che contenessero un barlume di talento. Chi ce la fa va avanti, chi no si ferma da solo. Spesso la non pubblicazione genera mostri. Noi siamo una generazione individualista, è vero. Ma il lavoro editoriale ti richiede ancora oggi lo sforzo a metterti in relazione.
Lei è editor per la Fandango libri. Le capita di essere invidioso del talento altrui?
Sempre.
Lei, Desiati, si rammarica del fatto che le autrici donne siano relegate in una riserva indiana, ma l'anno scorso avete pubblicato, su 44 titoli, solo 8 autrici.
Quest'anno stiamo pubblicando quasi solo donne.
Qual è la materia che potremmo opporre all'eternit?
La pietra. L'elemento primordiale. Nella mia terra c'è quella fossile, ossia un tempo piena di vita. Lì stanno le nostre anime morte. Una sopra l'altra formano le case, senza uso del cemento. Nei secoli danno vita alla civiltà.
In un'intervista di qualche anno fa parlò di un libro che avrebbe voluto scrivere, su pornografia e morte.
È il tema del prossimo romanzo.
Cos'è la pornografia?
È come la poesia. I versi mettono immagini ai sentimenti. La pornografia ai lati oscuri e alle ossessioni. Ha a che fare con l'indicibile. Come la morte.
Perché non porta più i baffi? Le stavano bene.
Il 2011 per me è un anno di guerra, e i guerrieri, quando c'è da combattere, si depilano.
Nesi si sarà depilato?
Poco conta. Tanto vince lo stesso.
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