martedì 15 novembre 2011
Della militanza, dell'indignazione e del divertimento
Cominciamo dagli applausi. Un tempo c'erano quelli "alla bulgara". Ben scanditi, in un crescendo rivoluzionario. Applausi scroscianti, serissimi. Un solfeggio ossessivo verso l'ovazione. Anni dopo, i nostri, assistiamo all'applauso indignato. Silenzioso, meno solenne e senza battiti. Solo mani carosellanti, come i bambini con le filastrocche. Leggeri ma non faceti. Perché di cose i movimenti se ne possono pure inventare – tendopoli, trampoli, sedute yoga, carovane danzanti, cori allegorici – ma da un'altra non possono prescindere: l'impegno. Per uscire dalla crisi, per cambiare lo stato delle cose esistenti, per evitare che la rivoluzione si faccia pranzo di gala (che Mao Tse-tung non avrebbe disdegnato. Era il conto che lo spaventava), va bene satireggiare – talvolta – ma distrarsi mai. Ridere sì, divertirsi no. Etimologicamente parlando, il divertimento volge altrove. Devia dall'obiettivo di rendere il mondo un posto possibile. Per questo a sinistra, nello sforzo di elevarne il significato, di voli pindarici si è fatto incetta: «tempo liberato dal lavoro», «cultura e ricreazione» (Arci), «attività socializzanti», «occasioni ludiche» e altre invenzioni tarate sull'inflazione e i suoi dolori. Qui si soffre e si lotta. Cosa mai c'avrete da divertirvi?
Via, dunque, alla sfilza di parodie seriose della distrazione: cineclub con in cartellone solo boiate pazzesche, letture comandate e collettive, balere inamidate, feste di partito e il tonificante dibattito. Code dress: eskimo, sguardo assorto e chili di ideologia. Qualcuno, pur di ribadire l'austerità dei sensi, si mise impettito di fronte a un'arena bolognese. Fine anni Sessanta. Proiettavano l'imperialista Berretti verdi. Vietato entrare. Un occhialuto ragazzo giurò vendetta e divenne il capo della destra italiana (per dire degli effetti del mancato divertimento, dalla biografia di Gianfranco Fini). Nelle "comuni", che ai benpensanti apparivano come postriboli pieni di rock e sesso, al dunque, tale la sfida lanciata all'urbanità borghese, era più il tempo speso a organizzare gli espropri e i turni di pulizia che a copulare.
Una strenua resistenza armata al divertimento trasformò i guerriglieri raccolti in brigata in tristi monaci dell'insurrezione. Niente alcol, erbe, a letto presto, sveglia all'alba, sempre all'erta, pronti a scattare al primo segnale. Unica deroga nella caserma rivoluzionaria: la nicotina. Assorbita a quintalate pur di annebbiare l'immagine grama della vita militante. Tanto fu il tossire che una volta (e forzatamente) usciti dalle sezioni politiche e investiti dal riflusso, in molti saltarono a pie' pari nello sballo, preferendo al divertimento la devastazione di eroina e chimiche varie. Le stesse che qualcuno, anni prima, per averle provate e descritte, si beccò dai sacerdoti della rivolta la sentenza di Kompagni che sbagliano.
Con i centri sociali occupati e autogestiti il tentativo di trovare una terza via al divertimento fu nobile e seria. Considerare il famigerato "tempo liberato dal lavoro" non un tempo di serie B, ma degno di essere vissuto e riempito come il primo. Anche perché quello, difeso costituzionalmente, cominciava a scarseggiare. Peccato che, possiamo dircelo oggi?, pure nei c.s.o.a., dove per penuria di mezzi si brancolava nel buio a mille decibel di raggae e jambè tra amici con palpebre a mezz'asta e bicchieri di vino fenico, divertirsi non era così frequente. Forse le ronde daje al basco nero, con quel misto di bullismo e adrenalina che ci attraversava, erano la soluzione migliore, come passatempo. Assai meglio dei servizi d'ordine durante i cortei: così seri da renderci lugubri.
Oggi c'è il teatro Valle. Assemblee e concerti, tavole rotonde e monologhi d'autore. Un'occupazione con ufficio stampa e squadre di igiene. Ordinati. Alla radicalità un po' zozzona dei cugini maggiori si è sostituito il decoro, l'appeal intellettuale delle penne Tq (trentaquarantenni) e il sofferto eroismo dei ricercatori precari. Componendo il quadro di un movimento posato e colto, responsabile e creativo, frustrato ma urbano. 'Na cosa seria, insomma. Operosi. Tanto quanto quegli scalmanati di nero vestiti, così certosini, quasi pignoli, nel selezionare il bersaglio del loro foco. Vetrine, Suv e Madonne di gesso. O coloro che in fila da Trony, che del divertimento e i suoi dispositivi ha fatto statuto, si sono impegnati con rigore e qualche spintone a mantenere integro l'ordine d'arrivo.
Sì, c'è la crisi, dicevamo. Pochi soldi, niente futuro. E soprattutto Silvio Berlusconi. È all'uomo che ha ideologizzato più di altri il cazzeggio, che ha promosso la barzelletta a lessico diplomatico e il trenino ignudi a dopolavoro ferroviario, che dobbiamo la colpa di aver gettato fango sul buon nome del divertimento. Di averlo condotto sotto gli anfibi dei moralisti più indignati. Che oggi, al solo immaginare un pomeriggio fatto di sesso droga e rock 'n roll, vengono còlti da travaglio.
Ma non è tutta colpa del satiro premier. Sia detto: la cattiva fama dello svago, a sinistra, ha ben altri apostoli. Theodor Adorno, per esempio, che nella Dialettica dell'Illuminismo scrive di quanto il divertimento costituisca una sorta di «prolungamento del lavoro nell'epoca del tardo capitalismo», tanto da riproporre pari pari l'atrofia mentale provocata dalle otto ore di fabbrica e ufficio. Insomma, chiosa il padre della Scuola di Francoforte: «Divertirsi significa essere d'accordo». Qualche secolo prima, era il 1600, Blaise Pascal sostenne che il divertimento fosse la peggiore e la più vasta piaga del mondo, «in quanto ogni uomo cerca di "distrarsi" dalla propria condizione debole, mortale e così miserabile». Poi come resistere allo stigma del Pasolini? «Li ho visti gli italiani in folla a Ferragosto. Erano l'immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di "raptus": era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti».
Insomma, tra le fila della sinistra più impegnata «distrarre l'animo da cure e pensieri molesti» non è poi cosa molto gradita. Al panem et circenses continua a preferire, anche quando la crisi si fa più acuta, il pane e le rose. Alla televisione (dice di preferire) il libro. Alla Playstation la messa in scena.
Continuando a ignorare la promessa che la parola divertimento, alle sue origini, contiene: diversità, divorzio, vertere lontano. Non evoca anche a voi, compagni seriamente impegnati, un'idea di liberazione?
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