mercoledì 7 settembre 2011

iDie, la morte ai tempi di Steve Jobs

Essere Cristo è innanzitutto una questione di stile. Corpo emaciato, occhio luminoso, posa carismatica e veste essenziale. Quando partorì la Apple, trentacinque anni fa, Steven Paul Jobs viveva le sue giornate in un garage piccolo e umido, scaldato da una  stufa. Nel corso della sua ispirata ascesa, è caduto e risorto almeno tre volte, battezzando colossi come NeXt e Pixar. Mentre moltiplicava file ed emmepitré ha lottato contro i luciferini Microsoft, Google e Ibm, annientandoli con la forza del design. E oggi che ha raggiunto la vetta del Sinai, quando presenta le sue tavole (tablet), non parla ma predica. Se il padre del Mac passerà alla storia, sarà per la più ecumenica delle invenzioni: aver diffuso dalle grotte di Cupertino un nuovo esperanto, fatto di icone e rapide combinazioni. Mela C, Mela X, Control Mela Esc. Simboli immediati e universali su cui puntare il dito indice perché le cose accadano, in California come in Sicilia. È così che la dottrina del plug & play consola ancora oggi milioni di consumatori in cerca di virtù.
Ora Steve Jobs, al cospetto degli apostoli del Cda della Apple, ha annunciato – di fatto – la sua morte. Senza dire quando questa verrà (gli auguriamo tardissimo), ha chiuso il cerchio del commiato aperto nel 2005 all'Università di Stanford, con un discorso ai neolaureati, da molti considerato memorabile, in cui confidava con il vitalismo di sempre il tumore che lo stava crocifiggendo. «La morte è probabilmente la migliore invenzione della vita» ha dichiarato, spiazzando i giovani wasp in ascolto. La regina dei tabù, quella cosa per cui al solo presagio ci si tocca, nelle parole del guru dei creativi assume tutt'altra allure. Da finale di partita a happening irripetibile, cambiamento radicale, “trovata” definitiva. È l'applicativo senza diritto di recesso: iDie. E come tale va annunciata.

Per questo e più motivi la via crucis di Steve Jobs, di colui che ha anteposto al verbo il prefisso io (iTunes, iLife, iPhone, iPad, iPod, iCloud...) ci conduce alla domanda campale: come si muore ai tempi della vita smart? In concreto: cosa resterà dei nostri status, una volta trapassati? Chi metterà ordine alle gallerie di immagini, video e suoni con cui abbiamo formattato le nostre esperienze? Chi archivierà i commenti, le note e le migliaia di mail spedite? E secondo quale logica? Quanto spettrali appariranno i nostri avatar vuoti e senz'anima? E i nickname, una volta abbandonati, saranno riaffidati? Potremmo disporre di un “testamento tecnologico” in cui depositare le nostre volontà? Per esempio: a chi lasceresti la gestione dei tuoi log in?

Sì, la realtà precede la fantasia. E dunque l'aldilà. Su Facebook, il profilo di una persona deceduta può essere memorialized, trasformato cioè in un link commemorativo per parenti e amici stretti. Un bacheca da omaggiare con fiori e pensieri. 1000Memories.com è un social network di defunti, un camposanto globale dove le gesta di persone care  riprendono “corpo”. Su Funeras.it, un motore di ricerca nel vivace mondo del caro estinto, si condensano i necrologi di tutto il pianeta. Sono solo alcuni esempi.

La morte, negli anni di massimo fulgore tecnologico, sembrerebbe ritrovare la sua dimensione pubblica. Il lutto un dolore da tirare fuori e condividere. Così come avveniva in passato, quando a funerale compiuto si banchettava e il due novembre era una ricorrenza sentita, si torna a corrispondere con i defunti, e il più delle volte senza l'ingombro di Dio. E anche quando la faccenda si fa personale – si moltiplicano i blog di malati terminali che narrano gli ultimi mesi di malattia –, nell'epoca della vita come “arte della riproducibilità” l'avvicinarsi al grande momento diventa un'esperienza sociale, l'occasione per “prendere parte” (sebbene anzi tempo) al proprio funerale. Un modo, forse, per distribuire le ceneri della nostra identità, oltre l'esistenza fisica. Una simulazione, nella patria delle simulazioni. La rete. È qui che annunciare la propria morte assume la forma di un gesto quasi sincero, vero. Il più “vivo” che un utente possa compiere. Di certo, il meno virtuale.

Tra qualche anno la generazione che Steve Jobs ha sedotto con la mela morsicata non potrà prescindere dagli addii in Hd, dall'invio di sms postumi («Ehi, hanno ragione loro, l'aldilà esiste») e dal lasciare agli eredi chili di cinguettii di Twitter da custodire. Spenderemo gli ultimi anni a disposizione cercando di ricamare il migliore autoritratto possibile. Affineremo i nostri interventi online, ci inquadreremo solo dopo esserci pettinati per bene, e confideremo aneddoti di vita vissuta depurati da ogni bassezza. È una profezia dolente ma inesorabile, dato il narcisismo che ci muove in vita. A meno che una mano lunga non provveda in nostra vece – nel sonno, ad un pranzo, lungo un viale – a staccare la spina. O, come direbbe Jobs nel suo linguaggio figurato, a comporre la semplice combinazione: mela Q.

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