«E mo'? Che famo? Questi ammazzeno sul serio, mica pe' ride. No, dico, questi te pijano cor trucco daa rota bucata e te fanno fuori co' 9 pistolettate. Magari solo perché hai pestato er piede a quarcuno, anni addietro. A un cravattaro, 'no spacciatore, a n'amico de n'amico. Va a capì. Eppoi dicono, occhio quanno giri pe' San Lorenzo, Tor Pignatta, o lì, a San Basilio. Macché, questi spareno a Prati, er quartiere de quelli co li sordi. Boh, per me è 'n casino vero. Cioè, vojo dì, me pare 'na cosa seria».
Sì, probabilmente è una cosa seria, o per meglio dire: ora si comincia a vedere che la cosa è seria.
Lontana, lontanissima appare la Roma dei festival culturali, di Elton John davanti al Colosseo («che mo' vojono pure vende»), delle Case per ogni passione. Quanto sforzo, da parte di Veltroni e gli altri magnifici, nel rimpinzare il ventre della capitale con dosi massicce di immaginario: pasticci di Cinema, tritati di letteratura, parmigiane di musica. Ci sono stati momenti, prima che si accendessero le luci in sala, in cui il corpo della città ci appariva mastodontico, muscoloso all'inverosimile, rocciuto come il travertino. Poi cadde, miseramente, come ogni corpo dopato cade. In salita, in un giorno di aprile, dei mesi il più crudele. Era il 2008. La “Veltroniana" fallì, e iniziò proprio in quelle settimane la serie tivvù Romanzo criminale.
«Se vai a vede in giro, ma pure su internett, è pieno de' cosi.. de accendini, majette, felpe, orologi... un sacco de robba co' le facce de quelli daa Majana. Gli attori, dico. Er Freddo, er Bufalo, er Dandi... Anche, se t'aricordi, i quattro busti tipo Mazzini e Garibardi, messi all'Eur per lancià la serie televisiva, che è daa paura, pure mejo del libro. E i cori finti: Libanese, uno di noi!».
Ma quanto di finto c'era nei cori finti rivolti ai finti busti che avrebbero dovuto promuovere la fiction? Poco. Che l'ultima epopea criminale di Roma sia oggetto di fascinazione collettiva non è un segreto. Non tanto per le trame e i misteri, che pure avvincono. Ma per quel carattere “vintage” che le capigliature, le braghe, gli occhialoni, donne e motori ancora garantiscono. Per i canovacci belli e pronti (location, trucco e parrucco) che registi tarantiniani massacrano. Per quella vaga idea di “romanità” che il bandito sa indossare mejo de artri. Nessuno vuole uccidere nessuno, sia chiaro. Ma intimorire, perché no? L'attitudine al “me devi che da rispettà” – grugno all'insù – resiste negli anni, anche a quelli piombati («'anfatti oggi se dici “So' dell'Autonomia” t'aridono dietro»). Nostalgia delle canaglie. Ché almeno un po' di vita dentro ce l'avevano.
«Invece a me Roma continua a piacemme. Comunque c'è 'no spirito fico. Alla gente je pija andà in giro, magnà insieme, ballà, anche solo fasse 'na passeggiata. Boh, io me diverto. Pe' questo, dico, mo' che se so messi a sparà sul serio, c'ho paura che sbarreno tutto, mettono un sacco de polizia in giro, e 'nse potemo più move...».
Dopo il fattaccio del musicista aggredito, gli abitanti di Monti hanno detto che il quartiere non è più una famiglia. Sono arrivati i borgatari, 'mbriachi e perduti, a rovinare la festa. E in tanti, a leggere le cronache, si sono sorpresi che una raffica giustiziera potesse esplodere in piena Prati, come se quella terra sabauda fosse immune dalla brutalità del sangue. No, Roma non è cambiata. Sta semplicemente compiendo il suo salto all'indietro, come le accade pigramente da secoli. E si compie ciò che Barbara Palombelli, acuta osservatrice romana, ha scritto di recente: «Come cinquant'anni fa, le élite si separano dal popolo».
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