martedì 18 gennaio 2011

Il comicismo

«Troppi sono oggi i fattori ansiogeni. La mia sarà una tv ottimista». Lo dichiarava Silvio Berlusconi a Camilla Cederna, in un'intervista per L'Espresso. Era il 1977. E la flebo di “ottimismo” che avrebbe condotto un intero paese nelle stanze del “miracolo italiano” cominciava a stillare le prime gocce.
Oggi, 34 anni dopo, a miracolo evaporato e fattori ansiogeni immutati, un comico pugliese, Checco Zalone, realizza il film più proficuo della storia, scalzando dalla classifica, con una pellicola di battute, un'altra comicità, quella di Roberto Benigni. C'è un collegamento tra la promessa di “levità” fatta dall'allora palazzinaro milanese e il grande successo del dispositivo comico di questi anni? Da Drive in ad oggi abbiamo imparato a ridere meglio? Delle battute ne siamo diventati più esperti o solo più dipendenti?

Scorriamo il palinsesto, segnalando solo alcuni esempi: il punto di equilibrio della trasmissione di Fabio Fazio è la chiosa finale di Luciana Litizzetto. Ballarò affida a Maurizio Crozza l'elenco degli ospiti e le tracce della puntata. Annozero registra i numeri migliori durante le vignette di Vauro. L'intervista di Serena Dandini si completa sempre con l'anti intervista di Dario Vergassola. Le ribalte a ciclo continuo come Zelig rinvigoriscono di anno in anno.
La battuta è sempre in agguato. È il corroborante dopo tanto ragionare, è il pit stop a tre giri dall'esaurimento. È la nostra sacrosanta quota di distrazione. Strumento consolatorio (se ben depurato e ammorbidito) per antonimasia.

E come la “lite” nei dibattiti politici e pomeridiani rinnova le appartenenze e le tifoserie (parodiando i duelli western, laddove a consolare è l'ammazzamento del nemico), così la messa alla berlina solleva dal logorio della vita.
È naturale che sia così? O il continuo ricorso alla maschera cela qualcos'altro? Viene in mente, sarà il comun denominatore televisivo, saranno le cronache felliniane, un'altra invenzione che gode di ottima salute: la velina.

Se parliamo di velinismo per indicare quella cultura che pretende di nobilitare la vista di un programma o di una campagna elettorale con un numero di ragazze ammiccanti, così potremmo introdurre il termine "comicismo" per definire la tendenza di autori e spin doctor a condire i contenuti (televisivi o meno) con dispensatorie di battute (al vetriolo? ormai sempre meno).

Da una parte il corpo femminile, dall'altra le sinapsi boccaccesche.
Lo spettatore, il più delle volte, ne uscirà grato: alla velina, per aver (ri)attivato il desiderio (un desiderio innocuo, metabolizzato, non impegnativo). Al comico, per averlo intrattenuto con la sua stessa intelligenza (quella che si esprime "capendo” le battute. Ah, che soddisfazione!).

Mentre il velinismo, almeno per una parte dell'opinione pubblica, simboleggia solo stereotipi e volgarità, il comicismo viene inteso al contrario come il diritto del pubblico pagante alla risata liberatoria, al sovvertimento delle regole rigide e stantie. Distinguo che si riproducono anche fuori dallo schermo: l'esser stata velina scandalizza a tal punto da rappresentare un'indelebile lettera scarlatta nei curricula di ministre e altre professioni, l'ingresso della lingua vulgaris del comico nell'agorà dà vita ai fenomeni politici tra i più partecipati: uno su tutti, Beppe Grillo e i suoi "vaffa".

Esiti che comprimono la scena stessa dei comici in cerca di creatività, prime vittime di questo minipimer mediatico. Ridotti all'osso della freddura, privati della profondità del “carattere”, del contesto, dell'attesa, della tragedia (come ricorda in queste pagine Franca Valeri), relegati a una mera funzione accessoria.

Come una quinta dai colori accesi, il comico "da palinsesto" dà il tono, incide sull'umore, segnala il tempo della risata (quella dello spettatore in sala, o quella registrata – che a sua volta attiva la risata di chi sta a casa). Battute a raffica, e dunque digeribili nel nanosecondo che le separa. Capovolgimenti già sentiti. I cosiddetti tormentoni. In un mantra incolore in cui si ride – così sembrerebbe – secondo una ritmica comandata.

A memoria recente, tra i pochissimi autori che hanno cercato di scrollarsi di dosso l'etichetta di “comico televisivo”, si può fare l'esempio di Daniele Luttazzi (spedito fuori dalla tivvù, infatti, con l'accusa di volgarità. Anche Zalone lo è, ma lo è "televisivamente"). Al di là dei gusti personali, una virtù, Luttazzi, ce l'ha avuta: spingere lo spettatore oltre la consolazione di essere al livello della battuta. Condurlo nella striscia che separa (o unisce) intelligenza e moralità, ragione e senso del limite. Non so se abbia avuto ragione, ma è stato un ottimo esercizio per la mente. E cosa strana, non era obbligatorio ridere.

«Per promuovere la creatività bisogna abbandonare la figura del comico che ci fa fare quattro risate», ha detto Corrado Guzzanti. Per sfuggire all'ottimismo di plastica invocato dal giovane Berlusconi, ci si dovrebbe interrogare sul perché vogliono che noi ridiamo. Sempre, comunque, ad ogni ora, su ogni canale.


pubblicato su Gli Altri

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