Il nostro amico Arnold, per disfunzioni renali, non ha mai superato i 130 centimetri di altezza. E ne ha vissute parecchie altre, di sfortune. È stato in causa con i genitori, che si erano impossessati dei suoi guadagni da attore. Ha provato a lanciarsi in politica candidandosi alle primarie di governatore della California nel Partito Repubblicano, arrivando ottavo, trombato da un altro Arnold (Schwarzenegger), bianco, austriaco e (già) muscoloso. È stato arrestato, rilasciato e ancora arrestato. Una vita così, fino allo scorso 28 maggio, quando è caduto da una scala nella sua casa di Salt Lake City, battendo la testa. E morendo a soli 42 anni. Qualche settimana prima, con un colpo di fucile si era tolto la vita Tyler Lambert, il figlio venticinquenne di Dana Plato, l’interprete di Kimberly Drummond, la sorellastra di Arnold. Dana Plato era già morta, nel 1999, per un abuso di farmaci, dopo aver partecipato a una trasmissione e aver comunicato a mezza America il suo gran ritorno. Detto questo mi attenderei dallo scrittore barese Nicola Lagioia, responsabile della collana Nichel alla minimum fax, conduttore su RadioTre e penna critica della generazione nata nei Settanta e cresciuta nei palinsesti degli Ottanta, una lettura non convenzionale della catena di sfiga che ha colpito le nostre amate star. Mi spiazza: non ci vede nulla di particolare. Per lui quei finali di partita non hanno niente di emblematico, e altro non aggiungono se non misere parabole (e marginali) alla Hollywood Babilonia. Anche se poi, chi dice qual è il modo migliore per uscire di scena? «Non dimentichiamoci – ricorda Lagioia – che Elvis Presley è morto sul cesso, per un attacco cardiaco. È più triste, non credi?».