venerdì 29 ottobre 2010

Il "destino" di Paul: salvare John


Paul racconta: «Decidemmo praticamente da subito che le canzoni dovevano essere di Lennon e McCartney perché ci ispiravamo a Rodgers e Hammerstein, gli unici due autori che conoscevamo insieme a Lerner e Loewe. Per noi questi nomi erano diventati sinonimi di composizione, perciò volevamo che i nomi fossero due. Io avrei preferito “McCartney/Lennon” ma John aveva una personalità più forte e credo che si fosse già messo d’accordo con Brian (Epstein) prima che io arrivassi. John era fatto così. Non che sia sbagliato ma io ero decisamente meno astuto. Aveva un anno e mezzo più di me ed evidentemente sapeva come girava il mondo. Ricordo che durante una riunione mi dissero: “Pensiamo che le canzoni debbano essere attribuite a Lennon/McCartney”. Io risposi: “Scusate, perché prima Lennon? Non è meglio McCartney/Lennon?”. Ma erano tutti d’accordo: “Lennon/ McCartney suona meglio”. “Anche McCartney/Lennon suona bene”, replicai. Ma alla fine dovetti cedere: “Oh, basta, andate a fanculo!”. Però poi ci mettemmo d’accordo, e tutti i pezzi dell’album Please please me vennero siglati McCartney/Lennon». Durò poco.


Quello è l’unico elleppì dove la firma di Paul “Macca” precede quella del compare più scafato, più intimista, più spirituale, più sexy, più capellone, più rocchettaro, più carismatico. Per il resto, dovrà accontentarsi di “venire dopo” il dannato con la chitarra in mano e il chewing gum in bocca. Dovrà scendere a patti – lui, Paul, spensierato e tono maggiore – con l’anima scura e in tono minore dell’amico John.

Yin e yang musicale. Così il duo realizzerà la catarsi perfetta, divorando le hit parade di mezzo mondo. Caldo/freddo, bianco/nero, brio/lento. McCartney dopo Lennon. Prendiamo e ascoltiamo A Day In The Life, dall’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967): due brani distinti – in realtà –, tenuti insieme da un’orchestrazione a 41 tracce ed equamente distribuiti tra i due. La canzone inizia con accordi semplici di chitarra e un riff di pianoforte complementare in 3⁄4. Poi arriva la voce abbacchiata di Lennon. La rima tratta di eserciti in guerra e uomini soli, e si conlude con un esausto «Oh Boy». L’incedere pessimista e vagamente depresso è palpabile.

Interviene Paul. Riscatta la tristezza con un riff discendente di basso, trascinato via via dai tamburi di Ringo Starr. Un boato orchestrale in crescendo, fino a un piano in ritmica costante che vira il brano verso un saltellante quattro quarti. La sirena di un allarme introduce la voce allegra di Paul, che canta: «Mi sono svegliato, sono caduto dal letto e mi sono trascinato con un pettine incastrato nei capelli». Vivadio, aria fresca. Spensieratezza. Quasi un preludio punk.

Si balla e si svolazza fino a quando, chiusa la parentesi di McCartney, un suono “epico” dell’orchestra annuncia il ritorno allo stile melodrammatico di Lennon. E batabùm, si ripiomba nelle malvagità del mondo. A Day in the Life, dunque. Che John passa affogando nelle tristi storie dai quotidiani e che Paul affronta bevendo una tazza di tè caldo. Un piccolo esempio che racconta al meglio lo spazio che separa gli umori dei due fratellini del pop.

In Lucy in the sky with diamond la prima cosa che conquista l’orecchio è un suono sintetizzato, leggermente fuori registro, seguito dalla voce nasale di John. Un sitar contrappunta i suoi testi psichedelici. La canzone rimanda a immagini surreali immerse in un’atmosfera lisergica. Lennon canta «Cerco la ragazza con il sole negli occhi, e lei non c’è più», e il rullante batte quattro movimenti, aprendo a un riff del basso dal tono “ottimista”. È il momento di McCartney. Evviva. Una breve esplosione di gioia, il coro che canta il titolo della canzone, una lode a Lucia, teniamoci per mano, giro giro tondo, prima che la veglia smorzi l’effetto. Lucy, la bella ragazza desiderata da Lennon, scompare ogni volta che lui – tapino – la cerca. Come a dire: le cose belle non avvengono se non con i sensi allucinati. Sfuggire dal mondo per rifugiarsi nella surrealtà.

In un campo di fragole. Strawberry Fields Forever, che John scrisse nel 1967, mentre Paul sfornava Penny Lane. Due omaggi alla città natale, Liverpool, e due umori opposti. McCartney descrive un luogo in un senso molto letterale e diretto: «Penny Lane è nelle mie orecchie e nei miei occhi». Un album di famiglia tutto sommato risolto. Lennon invece (“Strawberry Fields” era l’orfanotrofio che dominava il suo quartiere) canta il vantaggio di vivere a occhi chiusi, di rannicchiarsi sotto le coperte. È sul finire della carriera del gruppo che John si fa più leggero. Brani come Something Got Everybody’s To Hide Tranne Me and My Monkey, Glass Onion, e Happiness is a warm gun suonano addirittura allegri, e bilanciano lo sconforto di brani come Julia, dedicato alla madre scomparsa nel 1958. McCartney continua a comporre cose come Ob-La-Di, Ob-La-Da, per esempio, e Rocky Raccoon. E si affranca dai fabfour con Let it be, tra le poche canzoni che pur citando la Madonna non sanno d’incenso.

Con la moglie Linda («Scrivete che al matrimonio indossavo un gran sorriso», disse ai giornalisti) ha inanellato successi come Maybe I’m amazed e Mull of Kyntire, dimostrando a tutti come facile sia zompettare dal rock al folk. Ha sempre avuto la melodia tra le mani, l’armonia tra i denti e il registro vocale tra i capelli, sir Paul. E senza cambiare pelle è stato, musicalmente parlando, il primo della classe, in anni in cui pagava di più essere una pietra rotolante. «Lui dava sempre luminosità e ottimismo alle mie linee dissonanti», dichiarò Lennon in un’intervista a Playboy, pochi mesi prima di essere ucciso. «Suonavamo dentro il naso dell’altro». Per dire che c’era dialogo e sostegno. Pur avendo a mente, l’uno la parte vuota, l’altro quella piena, dello stesso bicchiere. Riempito da otto anni di perle uniche, libere nell’ispirazione e vincolate ad una sola regola: che fossero firmate senza possibilità di deroga, Lennon/ McCartney.

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