martedì 27 settembre 2011

Evviva il fallimento (ma ora basta)


Dice il saggio: sbaglio o qui non c'è nulla che funzioni? È un'impressione, eccessivo pessimismo, o perdiamo pezzi come un'auto rotta? A proposito di automobile e scoramento, diceva Henry Ford: «Chi teme di fallire limita le sue attività. Il fallimento è solo l'opportunità più intelligente per ricominciare». Retorica da inizio Novecento? Forse. Però è una buona scialuppa a cui aggrapparsi. Per esempio: colui che per dogma dovrebbe godere dell'infallibilità, il Papa, atterrato a Berlino, e parlando della sua Chiesa, ha ammesso di comprendere le ragioni dei fedeli che danno forfait. Missione ecclesiale fallita. «Grazie, sono stati 2000 anni bellissimi, ci mancherete», avrebbe dovuto dire, Ratzinger il politico, invece di esortare a nuova luce (ma come Ford anche lui pensa che il fallimento ha senso in quanto grimaldello di un nuovo inizio). 

lunedì 26 settembre 2011

La politica e l'arte dello Shibari

Foto didascaliche, disegni tecnici e glossari nippo-ciociari. Da ogni dove le migliaia di commentatori italiani alle prese con le insidie pruriginose della cronaca, dopo essersi edotti nei templi web del sadomaso, possono finalmente esclamare con compiaciuta sicumera e altrettanto sdegno: «Bondage!». Una parte dirà bondasc, che fa più marchese De Sade, l’altra azzeccherà la pronuncia anglofona. Ma il sottinteso è lo stesso: che perversione, che aberrazione. Che modo ripugnante di vivere la sessualità! Eppure, pur ignorandone tradizione e tecniche, dolori e piaceri, l’arte della legatura, dell’incappuccio, del bavaglio o più in generale dell'impedimento alla libertà fisica, di muoversi, di vedere, di parlare, di sentire, potrebbe essere letta, dopo la poesia e la navigazione, come uno dei tratti più marcati della storia italica. Una metafora capillare di una patria che schiava di Roma Iddio la creò. Di un’Italia, non a caso, a forma di stivale. Di lattice. Tacco 12.

mercoledì 7 settembre 2011

iDie, la morte ai tempi di Steve Jobs

Essere Cristo è innanzitutto una questione di stile. Corpo emaciato, occhio luminoso, posa carismatica e veste essenziale. Quando partorì la Apple, trentacinque anni fa, Steven Paul Jobs viveva le sue giornate in un garage piccolo e umido, scaldato da una  stufa. Nel corso della sua ispirata ascesa, è caduto e risorto almeno tre volte, battezzando colossi come NeXt e Pixar. Mentre moltiplicava file ed emmepitré ha lottato contro i luciferini Microsoft, Google e Ibm, annientandoli con la forza del design. E oggi che ha raggiunto la vetta del Sinai, quando presenta le sue tavole (tablet), non parla ma predica. Se il padre del Mac passerà alla storia, sarà per la più ecumenica delle invenzioni: aver diffuso dalle grotte di Cupertino un nuovo esperanto, fatto di icone e rapide combinazioni. Mela C, Mela X, Control Mela Esc. Simboli immediati e universali su cui puntare il dito indice perché le cose accadano, in California come in Sicilia. È così che la dottrina del plug & play consola ancora oggi milioni di consumatori in cerca di virtù.