venerdì 17 giugno 2011

Vincere!

Stare bene. Dagli altoparlanti della canzone popolare risuona il motto: stare bene. Mangiare sano, pedalare senza tregua, stile-rana-dorso, dar di pilates, intossicarsi di maratone, caldissime saune finlandesi, tisane di ortaggi, ore alla wii balance, roteare il collo ogni dieci mail, smettere di fumare (e infatti: dove è nascosto il sigaro ciancicato di Bersani?).
Il fisico da intellettuale, segaligno, pallido, con le costole in vista e le chiappe depresse ha ceduto il posto al corpo democratico, asciutto, con gli addominali in fila per tre e un colon fichissimo. Dismessa la fregola rivoluzionaria, il buon compagno si è immerso in calendari ginnici, misurazioni cardiache e monitoraggi calorici. Alle scarpe rotte (eppur bisogna andar…) ha preferito quelle in saldo da Decathlon. Il pugno chiuso, se si allarga l'inquadratura, tiene ben stretta l'asta su cui a suon di flessioni si dà un senso ai deltoidi.

Ma a noi di sinistra, a noi che pensiamo fermamente che la via al socialismo debba essere ciclabile, cosa serve un braccia-tronco-gambe senza una competizione, una meta, un risultato? In parole povere: che senso ha tutto questo sudare se non viene motivato da una gara e dal miraggio di un podio? Lubrifica, tonifica, allunga, rafforza – compagno – ma per la vittoria. Non per mantenere la pelle come quando c’era ancora il Muro.
«Lo sport è di destra», si è spesso detto scuotendo il capo. Boiata.

Molto comincia – e bene – nel 1910, quando dal podio del Congresso socialista qualcuno dichiara che «La ginnastica è la migliore arma contro le concezioni religiose che si ispirano alla rinunzia e al desiderio di dissolvimento». È la miccia che accende, pochi mesi dopo, un rovente dibattito tra i sostenitori dello “sportismo” e quelli dell’“antisportismo”. Scrive Ivanoe Bonomi: «I contadini del ferrarese, pur leggendo la Gazzetta dello Sport, sono dei veri rivoluzionari, perché con le loro lotte hanno saputo conquistarsi un tenore di vita alto, tanto da potersi appassionare allo sport». Replicò seccata Angelica Balabanoff: «No, la cura dello sport allontana i giovani dalle organizzazioni», che intanto facevano incetta, presso le officine romagnole, dei pneumatici per bici “Carlo Marx”.

Tra gli “sportisti” prese posto anche Antonio Gramsci: «Gli italiani amano poco lo sport; preferiscono lo scopone. All'aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffè, al movimento la quiete intorno al tavolo». Era il 1921, l'anno dopo qualcuno, forse per beffare il padre del Pci, si mise in Marcia. Seguono due decenni molto atletici.

Nel 1948, con la sinistra già sconfitta e Togliatti in ospedale, nasce l'Uisp, Unione italiana sport popolare. L'avversario più tosto, per questi bolscevichi in tuta, non sarà tanto il pregiudizio dei militanti quanto il giovane Giulio Andreotti che, intuendone il potere comunicativo, riempie il Coni dei suoi (Giulio Onesti lo presiederà per 31 anni) e al grido di «Lo sport agli sportivi» tartassa di controlli fiscali tutte le sedi popolari d'Italia. Piccole palestre, ring e campetti. Con al muro il tandem Stalin-Coppi. Rispettivamente il padre e il divo dei proletari. Alcuni intellettuali fraintendono. Scrive Moravia, con la sua voce acidula: «Lo sport rende gli uomini cattivi, facendoli parteggiare per il più forte e odiare il più debole». I politici qualcosa colgono: nel '59 Giorgio Amendola invita l'assise ad approfondire “la questione sportiva”. In vista forse, anche, chissà, delle Olimpiadi romane, che la sinistra non disdegna.

Tanto che mesi dopo, con la velocità di Livio Berruti, il Pci mette su il Meeting dell'amicizia, la manifestazione internazionale di atletica leggera che avrebbe dovuto avvicinare i campioni al popolo. Soprattutto quelli sovietici. Si discettava, certo, di asta e martello, ma il  vento della contestazione cominciava a soffiare anche negli spogliatoi. Le avanguardie sospinte da furori iconoclasti presero a elaborare provocazioni egualitaristiche, utopie, svolte antigerarchiche. «Basta parlare di campionati. Chiamiamoli “rassegne”». «Ora e sempre autoarbitraggio». Cose così, fino a quando il Partito non decise di chiudere il discorso: «Ora, compagni, non vorremo mica inventarci i palloni cubici?». Siam mica pazzi?


Fu l’inizio della fine. Come in tante altre vicende. Alla rivoluzione si preferì la partecipazione, e la più pauperista delle discipline, ché in tempi di austerity ci stava bene: la corsa. Nel decennio dei Settanta il verbo correre fu stampato su tutti i manifesti della città. Tra il movimento operaio e quello studentesco, trovò spazio quello della domenica: Corri per la salute, a Milano, in Puglia e in Sicilia. Corri per il verde, a Roma. Maratona della pace a Firenze. Fino alle più placide Camminate delle quattro porte di Reggio Emilia e le ferraresi Camminate sul Po. Lo sport perdeva pian piano la sua natura originaria, la gara per la vittoria, a favore di battaglie civili e ambientaliste. La spinta propulsiva dell’agonismo si era esaurita. Arriva il capitalismo.

Il marchio Vivicittà sulle pettorine e nei palinsesti tivvù e i partner commerciali come Ellesse presero a dominare anche le manifestazioni più popolari. Consumo, sudore e cause sacrosante, come la pace nel mondo e la povertà. Così fino al 2000, quando il mal d’Africa di Veltroni trasferì Vivicittà a Nairobi.
Dopo fu soprattutto tifo. Un mondo a parte. E spesso antisportivo. Del vecchio spunto d’inizio secolo, del connubio tra tecnica e umanesimo, oggi resta forse solo la ricerca, le Scienze motorie. Nei laboratori di quei corsi di laurea – così come nelle stanze moscovite dei teatri rivoluzionari – si misura l’atleta, il corpo, il movimento. Non per partecipare. Ma per tornare a vincere.

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