venerdì 18 giugno 2010

Nicola Lagioia: Noi degli anni ’80, sfruttati ma sfruttatori in erba

Il nostro amico Arnold, per disfunzioni renali, non ha mai superato i 130 centimetri di altezza. E ne ha vissute parecchie altre, di sfortune. È stato in causa con i genitori, che si erano impossessati dei suoi guadagni da attore. Ha provato a lanciarsi in politica candidandosi alle primarie di governatore della California nel Partito Repubblicano, arrivando ottavo, trombato da un altro Arnold (Schwarzenegger), bianco, austriaco e (già) muscoloso. È stato arrestato, rilasciato e ancora arrestato. Una vita così, fino allo scorso 28 maggio, quando è caduto da una scala nella sua casa di Salt Lake City, battendo la testa. E morendo a soli 42 anni. Qualche settimana prima, con un colpo di fucile si era tolto la vita Tyler Lambert, il figlio venticinquenne di Dana Plato, l’interprete di Kimberly Drummond, la sorellastra di Arnold. Dana Plato era già morta, nel 1999, per un abuso di farmaci, dopo aver partecipato a una trasmissione e aver comunicato a mezza America il suo gran ritorno. Detto questo mi attenderei dallo scrittore barese Nicola Lagioia, responsabile della collana Nichel alla minimum fax, conduttore su RadioTre e penna critica della generazione nata nei Settanta e cresciuta nei palinsesti degli Ottanta, una lettura non convenzionale della catena di sfiga che ha colpito le nostre amate star. Mi spiazza: non ci vede nulla di particolare. Per lui quei finali di partita non hanno niente di emblematico, e altro non aggiungono se non misere parabole (e marginali) alla Hollywood Babilonia. Anche se poi, chi dice qual è il modo migliore per uscire di scena? «Non dimentichiamoci – ricorda Lagioia – che Elvis Presley è morto sul cesso, per un attacco cardiaco. È più triste, non credi?».

Non saprei. Credo che Elvis sia ancora vivo. Ma la morte di Arnold (e prima, anni fa, quella di Lady Oscar) è più avvilente. E poi, voglia o no, ci riguarda da vicino.
Per la nostra generazione una sola morte è stata realmente significativa: quella di Kurt Cobain, nel ’94. Diversa da quella di Sid Vicious, morto per overdose – e anche qui tornano le differenze generazionali. Cobain si è ucciso. È diverso. Si suicida perché (oltre a un buon numero di cazzi privati) capisce che il rock non è più una via alla liberazione, ma cibo per Mtv.
A lei Mtv non piaceva? La tivvù del tempo era Rai e Drive in.
Come tanti all’inizio pensai che era un figata poter vedere i Rem e gli U2. Ma quando ho cominciato ad ascoltare Simpathy for the Devil anche nella sala d’aspetto del mio dentista ho capito che quel mondo era stato completamente vampirizzato.
Ci siamo detti solo cose brutte.
Non lo so, non credo siano cose negative. È la constatazione di come la nostra sia una generazione che ha vissuto – e vive – piccoli fallimenti, senza aver avuto un evento fondativo che ci tenga uniti. Siamo figli di un trauma senza evento.
Per esempio?
I nostri fratelli maggiori hanno avuto piazza Fontana, il rapimento Moro. Chi è venuto prima ha avuto la guerra, la Resistenza. Intendo l’aver vissuto momenti da cui partire per raccontare la propria storia, costruire un immaginario. Noi abbiamo avuto Genova, che però rappresenta più i nostri fratelli minori.
Senza eventi, ma con un trauma.
Sì. Il mio per esempio è quello di essere cresciuto in un devastante vuoto ideologico, in un deserto di idee. L’umanesimo l’ho scoperto solo dopo. È per questo che nel mio ultimo libro (Riportando tutto a casa, Einaudi 2009, 288 p., 20 euro) prendo in considerazione “non eventi” come “Drive in”, ovvero lì dove nasce il linguaggio berlusconiano, o Chernobyl, o la tragedia dello stadio Heysel. Tanti fatti, sì, ma nessun D-day.
Prima ha parlato di “piccoli fallimento”. Qual è il fallimento più grande della nostra generazione?
Ragionare con gli schemi mentali dei nostri padri. Attribuire ai soldi l’unica chiave per l’avanzamento sociale. Se continuiamo a fare così, se non stabiliamo un’altra scala di valori, siamo rovinati.
Io credo che se uno dovesse fare un’indagine, difficilmente si imbatterebbe in quarantenni pronti a sostenere «i soldi prima di tutto» – e non sto qui a parlare del minimo sindacale per una vita degna. Ti parlerebbero di amore e volontariato, presumo. Qualcuno aggiungerebbe la musica o il pilates.
È tutta qui la nostra schizofrenia. Siamo intossicati dentro questa contraddizione: sappiamo bene cosa abbia valore per noi ma spesso imbocchiamo la strada opposta. Siamo degli sfruttati con la mentalità da sfruttatori.
Addirittura.
Ti faccio un esempio: un mio amico dottorando di ricerca ha il compito di formattare le email del suo professore. Questa è la sua principale mansione. E io gli chiedo: perché non lo mandi a fanculo? Se non lo fa è solo perché ambisce a diventare, un giorno, come lui.
E invece?
I ricercatori, se volessero, potrebbero fermarla, l’università. Se ne fottessero della carriera. Tanto non la faranno mai.
Qui temo che la battaglia sia per la difesa di uno straccio di lavoro. E di reddito.
Sì, ma vista la situazione ciò che mi colpisce è la mancanza quasi assoluta di conflittualità sociale. Non basta manifestare.
E cosa si dovrebbe fare?
Occupare il Parlamento. Incatenarsi in 50mila. Non so. Ti chiedo: è possibile digerire una decisione come il disegno di legge sulle intercettazioni?
Pensa che il ddl sulle intercettazioni sia la pietra della scandalo?
Le pietre sono così tante da rimanerci sepolti. Dico io: il cofondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e senti l’eco di un’altra storia, quella di Andreotti e i suoi rapporti accertati, e andati prescritti, con la criminalità organizzata. Perché la memoria collettiva non reagisce? Ho come l’impressione di stare in un romanzo di fantascienza, dove non è chiara la realtà in cui viviamo.
La realtà di un’Italia unita dal nastro adesivo.
È vero, da una parte c’è l’attenuante di essere una democrazia giovanissima, dall’altra c’è il fatto storico di una Resistenza troppo poco partecipata. A Bari mio nonno faceva il coltivatore diretto. Gli cambiò poco nel passaggio dal fascismo alla democrazia. Però un miracolo c’è stato…
Anche lei per il boom?
No, no. Intendo quello avvenuto dal ’45 fino alla Carta costituzionale. Lì si fa politica. Forze diversissime si mettono d’accordo. Perché ragionano da opposizione. Per questo danno il meglio di loro. Con la Costituzione lanciammo il cuore oltre la siepe.
Sì, ma il resto del corpo è rimasto qui. Ritornando ai nostri giorni, perché secondo lei non scatta la della rivolta?
Perché siamo stati educati malissimo. Magari qualcuno di noi leggeva anche Burroughs, ma se alzavi la testa i segnali che arrivavano erano tutti diversi. Opposti all’idea di conflitto. Per questo siamo cresciuti schiacciati tra l’ambizione alla carriera e (dunque) la propensione al fallimento.
Che male c’è a fare carriera?
Per un manager, nulla. E neanche per un politico. Anzi, auguro a Nichi Vendola di fare una gran carriera. Ma per chi si occupa di cultura no, non penso sia l’atteggiamento giusto. Bisogna essere disposti a camminare a braccetto con il fallimento. La scrittura, per esempio, non va d’accordo con la pianificazione. Se pensi alla carriera sposi inevitabilmente la lingua mainstream, la lingua del potere, pubblicitaria, semplice, monodimensionale. Tradendo la missione letteraria, che delle cose del mondo ne scova la complessità.
Più che altro penso che fare carriera sia un lavoro a tempo pieno. Toglie tempo.
Ricordo di aver visto al Moma di New York un’installazione fatta di tutti i biglietti da visita che l’artista aveva raccolto nel corso della sua vita prima di arrivare ad esporre la sua opera.
Mi fa il nome di un suo collega molta carriera e poca scrittura?
Non vorrei passare le settimane a venire a litigare con qualcuno.
Lei vive a Roma da tanti anni. In questa città, sotto Veltroni, gli appuntamenti culturali hanno monopolizzato i calendari. Romanzieri trattati come rock star, case della cultura, festival letterari, e altro. Ma si ha la sensazione che nulla sia veramente cambiato. Esperienze senza peso.
Io, in politica, ho simpatie e antipatie istintive. Per Veltroni l’antipatia è istintiva, epidermica. La sua retorica culturale non è mai stata popolare. È elitaria. È come leggono i romanzi le signore di Roma Nord. E si sa che leggono (male) tutte le moderne incarnazioni di Liala. Piuttosto che Faulkner, che gli farebbe bene. E poi basta leggere le introduzioni ai suoi libri, per farsi un’idea dello spessore culturale di Veltroni. Detto questo ero contento anche io che a Roma venisse Don De Lillo e che Philip Glass suonasse tutte le domeniche. Sotto Alemanno manco questo. Ma se non crei un movimento, se non sedimenti, se non finanzi laboratori, esperienze, cosa resta? Che senso ha, se non esclusivamente elettorale?
Politica e cultura, creatività e consenso, linguaggi e partecipazione. Arriviamo a Vendola.
Vendola cosa?
Vendola Nichi.
Sì, d’accordo.
Cosa ne pensa?
Te lo dirò tra 5 anni. Per ora posso dirti che la Film Commission lavora molto bene, ed è un buon segnale. Vendola me lo ricordo tanti anni fa. Io ero un ragazzino, non seguivo la politica. Però andavo ai concerti. Alla Taverna vecchia dei maltesi, chi è di Bari sa di cosa parlo. E c’era anche lui, che già interveniva con la stessa partecipazione di oggi.
Lei, Mario Desiati e Alessandro Leogrande siete stati definiti i neo pasoliniani di Vendola (Mastrantonio sul Riformista). Ti piace come definizione?
Dire che uno scrittore è vendoliano, veltroniano, berlusconiano, è come insultarlo. Però, sì, tifo per lui.
La politica pugliese, la musica pugliese, il cinema pugliese, la letteratura pugliese, il mare pugliese. Non le viene voglia di andare in Molise?
Un po’ sì. Ma questo amore per la mia terra non è solo moda. Anzi, per la prima volta si parla del Sud senza ricorrere alle cime di rapa e ai trulli, ma si cita Carmelo Bene. Un bel salto in avanti. E mi piacciono “Le fabbriche di Nichi”.
C’è bella gente?
Più che altro non ci sono i soliti yesmen della politica. Ma giovani che non fanno sconti. Ho assistito personalmente a rimproveri fatti a Vendola dai suoi militanti. E poi hanno convinto mia madre a votarlo, a votare un omosessuale comunista.
Cuore di mamma.
Vendola è per le mamme quello che vorrebbe essere Casini.
Sa suonare uno strumento?
Sono stato per breve tempo un batterista. Ma ero una pippa totale.
Non aveva il senso del ritmo?
No, quella c’era. Non ero stabile. Acceleravo senza rendermene conto. Anche a pallone ero così così. Mi sono rotto tutto.
Attaccante?
No, portiere.
Rompersi tutto stando in porta non è scontato.
Una volta mi procurai anche un trauma cranico. Sono uscito andando incontro al bomber, sulla palla, ma lui aveva già caricato il tiro.
Sta seguendo i mondiali?
Sì, ma senza entusiasmo. L’ultima nazionale era antipatica, ma ben rappresentava il paese. Questi mi sembrano antipatici di serie B.
Cosa pensa di Saviano e delle polemiche “da sinistra” sugli eroi di carta?
Non ho letto il libro di Alessandro Dal Lago. E su quello non mi pronuncio. Gomorra è un buon libro? È scritto male? Domande lecite. Ma su una cosa non si può dubitare: Saviano ha fatto comprendere a tutti che la prima potenza economica del Paese, la camorra, non si limita a Casal di Principe. Siamo tutti coinvolti. Questo è un grande merito, che lui paga vivendo da recluso.
I riferimenti si cercano sempre più nella società, sempre meno in Parlamento.
I politici non capiscono più nulla, del paese e di chi lo abita. Ti racconto un aneddoto: tempo fa, volando da Bari a Roma, mi siedo vicino ad un politico. Mi dice che non ha mai tempo di leggere, se non qualche quotidiano, e se gli potevo consigliare un libro. Io gli suggerisco La coscienza di Zeno. «Ah, Primo Levi», dice lui. Io a quel punto mi incazzo. E gli spiego che senza aver letto Sciascia e Fenoglio è più difficile capire anche l’Italia di oggi. Prima di congedarmi da lui, gli consiglio L’urlo e il furore di William Faulkner. Con la speranza, dentro di me, che lo legga poco prima di andare in pensione, ci entri dentro pagina dopo pagina, lo apprezzi e una volta chiuso capisca di aver sprecato tutta la sua vita.

pubblicato su Gli Altri

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