Secondo le agenzie, lo spettacolo – data di partenza il 22 febbraio - funzionerà così: i riflettori della rete, condotti da Sabrina Nobile (la “iena” che smascherò l’ignoranza dei deputati), seguiranno la fase finale di selezione, con il “cacciatore di teste” dell’azienda da una parte, e dall’altra, affiancati da un motivatore e un filosofo del lavoro, i tre candidati. La loro storia (dove vivono, chi frequentano, l’opinione di familiari, amici ed ex) verrà riassunta in brevi documentari, e dopo prove, gare, fallimenti e rinascite (il cliché collaudato dall’Isola dei famosi), e fatta la media dei giudizi (non si sa se il pubblico avrà una parte in commedia, magari con il televoto), assisteremo all’entrata di uno degli esaminati nel mondo del collocamento. Beato lui, diremo. Ma anche no. Visto che in palio- per ora - non c’è nulla di stratosferico: un posto in una azienda ottica, uno da assistente cuoco e uno da animatore alla Valtur.
Il lavoro diventa la cuccagna del gioco serale. È la materia eccezionale, da prime time. È l’altra faccia dei gratta e vinci che promettono vitalizi in denaro. Ed è tale il richiamo atavico che emana dalla semplice espressione “firma di un contratto” – di quelli con stretta di mano e tredicesima (come si presume saranno le carte esibite dal programma) – da far dimenticare l’ebbrezza e la libertà – quella del “poter disporre di tutto” qui e subito – delle vincite della fortuna. Prova ne sia la dichiarazione della casalinga Michela De Paoli, che due settimane fa, dopo aver conquistato un milione di euro al quiz di Gerry Scotti, ha detto sconsolata: «Io in realtà cercherei un lavoro».
Articolo costituzionale e desiderio universale. Ma desiderio ormai sommesso, da minimo sindacale (appunto), dai colori desaturati e spesso neanche più cercato (così racconta l’Istat). Senza la tensione – spettacolare, televisiva – che da Lascia o Raddoppia in poi ha condotto concorrenti e pubblico verso il decollo dei sensi, la definizione da 100 milioni di dollari, l’abbraccio e bacio di un’intera nazione.
Ne Il contratto la materia grezza dello stare “sotto padrone” sostituirà d’un sol colpo la follia felice e carnevalesca della lotteria. E la questione si farà seria. Altro che Amici di Maria De Filippi, e il cantare, ballare, danzare, tra l’ispirazione e un’ossessiva cura di sé e del proprio presunto talento. Qui, nel format di La7 (e non solo, la Rai ha già annunciato un clone, a guida di Paola Perego), non si alluderà a una vita meravigliosa, con tournée e première, fiori e vette artistiche, ma a una vita normale, fatta di turni, cartellini, ferie e malattie. La vita dei genitori, dei nonni, di qualche fratello maggiore. La vita alla quale un tempo si era giurata vendetta. E che la barbarie di questi anni ha ricoperto di nuova linfa.
Per questo, se da una parte si può prevedere lo spettacolo (che la lotta per la vita in qualche modo garantisce), dall’altra appare meno chiaro immaginare uno spettatore che non resti deluso già dopo la prima assunzione dalla magra ricompensa di tanto sudare. Di tanta rabbia non sopita.
E se addirittura il pubblico meno distratto, si irritasse per un gesto – quello aziendale – che potremmo definire da ancien régime? «Ti concedo l’assunzione perché te la sei meritata a furor di popolo», «do il mio contributo premiandoti con un vero contratto». Già sembra di sentire la voce del padrone stillare paternalismo come unico antidoto alla precarietà. Con l’etichetta doc: visto in tivvù.
Mirafiori, già sparito dalle pagine dei giornali, entra (il suo modello entra) nel palinsesto del nuovo anno, lasciando alla porta – anche qui – tutto ciò che odora di sindacale. E se i tempi televisivi sono perfetti per stabilire la durata di una minzione (che è quella, mediamente, di uno spot), i contenuti del dibattito politico si intrecciano con geometrica precisione alle premesse del nuovo format.
Nella sua trasmissione L’Infedele, dedicata ai postumi del Rubygate, Gad Lerner, annunciando Il Contratto, ha esaltato gli aspetti pedagogici, quasi da radiotelevisione diccì, ed educativi del programma: «Noi sollecitiamo i giovani a trovare lavoro attraverso criteri [pausa] normali», in un paese in cui per fare carriera «si cede alla [pausa] debolezza». Insomma, chiarisce il conduttore in veste di moralizzatore, «non si vince con gli abiti sexy, ma con gli strumenti giusti». Tanto scandalo per il mancato decoro, e neanche un batter di ciglio per quel verbo, vincere, connesso al lavoro.
Sia chiaro: non è un’offesa né un lustro. È la verità. Il lavoro è finito. Si vince in tivvù. Fuori dagli studi – rullino i tamburi - è tempo di garantire reddito.
pubblicato su Gli Altri
Lo leggo soltanto ora. Colpevolmente? Oppure... soltanto coincidenze?
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