venerdì 13 agosto 2010

2020, lo strano silenzio di Berlusconi

Roma, 15 agosto 2020

Caro amico,
accade proprio nelle giornate come questa, storditi dall’afa e dall’amaca, di incartare la mente con la regina delle domande: cosa è successo quella notte di dieci anni fa? Nessuno può esonerarsi dal rispondere. C’eravamo tutti. E tutti desideravamo qualcosa. Chi la sua morte, chi la sua rinascita. Qualcuno pregava, altri cantavano. Altri ancora, come noi, immaginavano il dopo (più per esorcizzare il dramma che perché ne fossimo capaci). Dentro le case, nelle parrocchie, in piazza, nei centri commerciali, l’intero paese fingeva di lavorare, divertirsi e consumare al basso continuo dell’angoscia. Qualcuno paragonò l’atmosfera di quegli anni al clima che emanò dal rapimento Moro. Ma stavolta non c’era fermezza, non c’era tattica di sorta, non c’era neanche lo Stato. Unica cosa in comune con quell’evento – lo scriverà Galli della Loggia due anni dopo – «è il salto di qualità, la potenza del gesto. Sebbene non siano le Br a lanciare l’offensiva, ma Dio in persona».
Se solo si potesse trattare con qualcuno!, ci rammaricavamo. E scambiare al mercato nero del fato la felice soluzione con, che so, un fiume. O un intero consiglio d’amministrazione. O una squadra di calcio di serie A. Interrompete questo strazio e noi vi regaliamo la Lazio. Ridevamo di noi stessi. Della nostra maniera tutta infantile di relazionarci all’avvenimento che avrebbe cambiato le nostre vite.

Ecco il fatto: Silvio Berlusconi – 73 anni, ferragosto 2010, villa Certosa – aveva scelto di non parlare più, e nessun parente, collega, sodale era nelle condizioni di spiegarne il fenomeno. Corpo in perfetta salute. Lucido di mente. I medici erano annichiliti. Solo Franco Zeffirelli, il regista fiorentino, gli occhi gonfi di lacrime, lanciò un indizio: «Silvio è diventato Bartleby». Ricordi, amico mio, il capolavoro di Melville? Preferirei di no, fino a lasciarsi morire. Ne abbiamo discusso parecchie volte. Quella disobbedienza radicale, quel “no” rivolto al mondo senza alcuna spiegazione, ci terrorizzava e seduceva. La notte di dieci anni fa Berlusconi sembrò fare la stessa scelta. Darei via questa mia gamba penzolante e pigra per sapere il perché. L’uomo azienda, il guru del “ghe pensi mì” si era ridotto ad un solo gesto: scuotere la testa.

Accadde una cosa strana ma che era iscritta nelle cose possibili. Almeno così sembrò a me. L’animo di milioni di italiani, fino ad allora – e per lunghi anni – eroso dall’odio, dal livore e dal disprezzo per quel politico, si placò. Così, d’improvviso. Il preferirei di no del grande capo ci atterrì e ci fece toccare con mano, e come d’incanto, la durissima realtà in cui eravamo annegati: erano passati 33 anni dall’invenzione di Fininvest, 16 dalla sua prima elezione, e noi non avevamo fatto nulla per migliorare la nostra vita. Allattati dal nostro peggior nemico, eravamo nel frattempo – ahimè – invecchiati. Il capro espiatorio non c’è più, gridammo dentro il petto. Che ne sarà di noi?

Non sapevamo reagire. Se cede lui, dicevamo a malincuore, chi potrà mai salvarsi? Anni durissimi, quelli. Ricordi? La crisi, pochi soldi, pochissimo lavoro. Un senso diffuso da finale di partita. Mancanza totale d’affettività. Vincevi se ti incazzavi. Ancora meglio se ti incazzavi senza un motivo apparente. La mattina dopo aprimmo le finestre su un Parlamento stravolto. Volti cupi, pallidi, impauriti. Prese la parola Gianfranco Fini. In molti ci puntavano. «Parla bene», dicevano. Proprio quell’estate tentò di defenestrare il re. «L’ultimo grande statista italiano», disse, ripetendosi, «ci comunica col suo silenzio che sta a noi proseguire la sua opera riformatrice». L’impeto dell’ex alleato durò poco. Bersani e Tremonti lo isolarono, accusandolo di voler speculare su quello che, a torto a ragione, appariva agli occhi di molti come un dramma.

Bersani, poi. Arrivammo a detestarlo. Vero, amico mio? Senza che gli venisse chiesto, andava ripetendo che era cosa buona e giusta rispettare i tempi e i modi dell’avversario, senza accelerare alcunché. Strategia funerea che portò, come abbiamo visto, alla fine del Pd, alla rinascita del Partito popolare, o come diavolo si chiama la nuova diccì, e al perdurare di un governo «d’impunità nazionale» (per citare Marco Travaglio).

Io ci misi del tempo a recuperare le energie, e così molti della mia famiglia. Non ti saprei dire quante volte, nei mesi a venire, ebbi la forza di sorridere. Spensierato non tornai ad esserlo mai. Berlusconi, il suo corpo, ha continuato per anni a dominare su giornali e televisioni. Ogni tanto è apparso pubblicamente, silenzioso, come memento (credo).

Fino al natale scorso, quello del 2019, ricordi? Le agenzie stampa annunciarono che forse quella notte il presidente del Consiglio (incredibile che ancora lo sia, a tutt’oggi) avrebbe parlato. Nessuno smentì. Chi poté (e io, modestamente, potei) si accalcò in piazza delle Grandi Libertà, a Milano, di fronte al Duomo tutto illuminato. Una folla sterminata voleva assistere di persona al ritorno nel regno dei parlanti di Silvio Berlusconi. Chissà quanti erano connessi o davanti al televisore. Milioni, come sempre.

Iniziarono la serata con una messa all’aperto. Suggestiva, direi. Tutti stretti nei cappotti. Un freddo cane. Forse nevicava pure. C’era anche Nichi Vendola con un gruppo del partito. Ricordi quanto entusiasmo quegli anni? Si andava a fare la vacanze in Puglia come i nostri genitori andavano in Jugoslavia. Così, a prescindere. Quando Berlusconi si azzittì – o «si arrese al male oscuro», come scrisse Eugenio Scalfari – Vendola spese le parole più accorate: «In questi momenti penso all’uomo, non all’avversario politico. E a lui dico: il tuo silenzio sarà riempito dalle nostre narrazioni, dai nostri desideri, che sono fatti di pace, giustizia e fratellanza». Poi è finita come è finita, amico caro. Anche se con Mario Draghi, ne sono convinto, avrebbe potuto funzionare. Colpa di Massimo D’Alema, dicemmo perentori. Confortati da quel titolo sull’Espresso, che fece storia: «Si scrive baffino si legge baffone». Vedere anche lui a piazza delle Grandi Libertà, e Veltroni (sapessi quanto è invecchiato, e per non parlare di Letta) come chiusi in un sol giaccone ad applaudire l’imperatore muto, mi fece uno strano effetto. Riscaldai questa mia sensazione col fiato e scattai una foto al palco.

Il corpo di Berlusconi invecchia lentamente. Quando si rimise insieme a Veronica Lario, i commentatori furono spietati, ricordi? «La soubrette vuole anche la sua anima», scrisse Feltri. In quella serata milanese pensai ad altri corpi. Corpi lontani e diversi. Quello di Cristo, flagellato, morto e risorto, e di Benito Mussolini, nascosto per anni in una scatola di scarpe e, così, mitizzato. Un altro paragone, e assai calzante, lo fece su Repubblica, Adriano Sofri, 5 anni fa: «Assistere alla rinuncia alla parola da parte di colui che ha fatto dell’immaginario l’arma più efficace, riporta alla mente un altro drammatico “spettacolo” dei nostri tempi: quello di papa Wojtyla e del suo corpo malato». Però, riflettei durante la messa meneghina, io non sarei mai sceso in piazza per quel papa, come per nessun altro pontefice. Invece, eccomi qui, a godermi lo show – in fondo celebrativo – per uno degli uomini che ho più avversato in vita mia. Ma altro non seppi dirmi. Non avevo grandi argomenti per non stare lì. Se non la scelta legittimissima di non esserci. La stessa, più o meno, che fece Antonio Di Pietro. «Lui si sarà dimenticato di come si parla – ha detto recentemente al telegiornale pubblico – ma io non dimentico i crimini che ha commesso». Se non ci fosse, Tonino, bisognerebbe inventarlo. Ricordi anche questo ritornello, eh, amico mio?

La notte passò veloce. Gesù bambino nacque come da copione e Berlusconi non parlò. Neanche una sillaba. Accennò un mezzo sorriso, e a spalle larghe si fece spazio tra la folla, verso l’automobile. Sai, amico mio, io ero a pochi metri. Avrei potuto toccarlo, se mi fossi spinto oltre. O ferirlo, come fece quel tale undici anni fa. Invece l’ho solo guardato negli occhi. Ci siamo fissati per alcuni secondi. Uno strano effetto, come quello che – raccontano – ti coglie un attimo prima di morire. Ho visto le persone a me più care, i telefilm della sera, i viali di Berlino, il muso del mio cane e i politici che avevo incrociato in piazza, ringiovaniti. Mille immagini in un sol maglio, che mi sono piovute addosso, colpendomi con furia, e facendomi perdere l’equilibrio. Tutto così veloce che sbracciai disordinatamente in cerca di un appiglio. Ma anch’io caddi, come corpo morto cade.

p.s. Amico mio, raccontami di Roma. Sapessi quanto mi manca. Qui a Milano si soffoca. Ma questa volta lo giuro: a costo di corrompere il Comando padano, faccio il passaporto e ti vengo a trovare.


pubblicato su Gli Altri

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